Categoria: APPROFONDIMENTI

Guida irragionevole agli invarianti del cinema cantonese

Le generalizzazioni sono con ogni probabilità le madri di tutti gli errori, specialmente nell'esame critico di un campo tanto vasto e variegato come l'industria cinematografica hongkongese. Ciononostante è poi sempre divertente tentare una riunione (immaginaria o meno che sia) in grado di fornire una visione d'insieme di una data area. Una sorta di sfida, se si vuole.
Con questa consapevolezza - e con tale limite sempre ben presente - ecco allora una discussione sui possibili tratti generali e distintivi del cinema di Hong Kong. A patto che si trasformi in una base da cui partire per nuovi, personali percorsi, e non in una serie di certezze statiche sulle quali appiattirsi.
Quali possono essere dunque le caratteristiche comuni implicite nei film della ex-città stato? Cosa ne ha fatto - oltre all’abilità di singole persone, ovvio - un cinema tanto dinamico ed affascinante?
La prima cosa a cui pensare è senza dubbio il fatto che questo è un cinema visceralmente ed irrimediabilmente popolare. Radicato nella tradizione dell’opera cantonese, non è però popolare nel senso negativo che il termine ha assunto in occidente, divenendo sinonimo di commerciale, quanto piuttosto amato e vissuto da tutti i suoi spettatori con partecipazione. Certo, quella di Hong Kong è un’industria cinematografica il cui unico scopo dichiarato è, come sempre, la moltiplicazione dei capitali investiti. Ma tale smania di guadagno non ha impedito lo sviluppo di sensibilità artistiche e derive poetiche probabilmente impensabili in altri luoghi, perlomeno con tale pervasività.
Seconda caratteristica è sicuramente il suo essere, nella stragrande maggioranza dei casi, cinema di genere - il che forse è una conseguenza proprio del suo essere cinema popolare. Anche quelli che in occidente sarebbero considerati autori a tutti gli effetti (ad esempio King Hu, Stanley Kwan, Wong Kar-wai...), operano infatti all’interno di una visione riconducibile all’esperienza particolare del film di genere, secondo un procedimento che dal particolare di una storia horror, fantasy, poliziesca o simile, si propone di arrivare all’universale.
Ulteriore tratto è la sua semplicità. Lungi dall’indicare incapacità realizzativa o carenza di idee, è invece il germe di un cinema che da un approccio ingenuo e incantato trae la sua arma migliore per generare uno stupore cristallino nello spettatore.
Alla semplicità si aggiunge poi la serialità, lontana però dall’indicare qualcosa di deleterio. Non è infatti una serialità definibile come ripetitività, quanto piuttosto una sorgente comune dalla quale il cinema sa cogliere senza esaurirne il flusso. La tradizione cinese è infatti ricca - quasi sovrabbondante - di storie dei generi più disparati (dai racconti fantastici ed orrorifici, fino alle leggende mitiche e alle narrazioni poliziesche o alle storie d'amore), continuamente prese a modello per infinite e diverse riproposizioni filmiche. La peculiarità è però la capacità tutta orientale di rigenerare tali storie in modelli sempre nuovi, tanto da rendere due film ispirati alla stessa fonte irriconoscibili l’uno dall’altro. E chissà che questa caratteristica non provenga da una diversa concezione di creatività, come si profila se si guarda alle tradizionali prove per diventare funzionari dell’antico impero cinese, in cui tra le altre cose ai candidati veniva chiesto di scrivere delle poesie. Tali opere, però, non dovevano dare prova di innovazione o libertà stilistica, quanto dimostrare la capacità del candidato di cesellare le fonti (nello specifico i testi tradizionali del confucianesimo) in un’unità nuova e risplendente.
Ultimo elemento generale è infine una particolare etica della messinscena attenta nello specifico alle coreografie dei corpi. Mai come in questo caso il corpo nei suoi movimenti e nel suo farsi è parte integrante dell’idea di cinema, non tanto nell’aspetto superomista o feticista - che guarda al corpo come moderno feticcio e idea di perfezione da raggiungere - quanto nell’equazione lineare che conduce dai movimenti dei corpi alle emozioni dello spettatore (motion / emotion). Il corpo dell’attore, nel divenire principale parte in causa dello svolgersi del film, diventa il fulcro e il paradigma di una intera cinematografia. Tale aspetto, certamente più visibile nei film di arti marziali e di cavalieri erranti, è comunque pervasivo di tutto il cinema hongkonghese, dai melò alla commedia - in cui il motore delle gag è spesso di ordine corporeo o ad esso riconducibile. I duelli (che siano gli scontri con armi bianche del wuxia o i colpi di pistola dell’heroic bloodshed) vengono quindi ad assumere dei toni tra misticismo, balletto e musical che, ricontestualizzati, riescono a polverizzare qualsiasi staticità. Nella pellicola come nello spettatore.
Tutto questo richiama con naturalezza un sistema conchiuso ed autonomo che genererebbe una serie di pellicole riconoscibili e ad elevato tasso emotivo. Per buona parte delle pellicole provenienti da Hong Kong questa conclusione non si è rivelata totalmente infondata o campata in aria. Si potrebbe allora chiudere con una postilla critica: cosa è cambiato? Quali e quanti dei caratteri sopra elencati sono venuti a mancare? Ma, soprattutto, per quale serie di cause?