Categoria: APPROFONDIMENTI

Dog Bite DogQuando la morte del cinema di Hong Kong, sanzionata dai dati ufficiali del box office e dalla diminuzione dei film prodotti, era ormai un dato di fatto, questo a sorpresa dimostra un incredibile istinto di sopravvivenza e prova a rigenerarsi, anche se sotto un’altra forma. Uscito di scena dal portone principale, tra lustrini e necrologi illustri, è rientrato in punta di piedi da una porticina di servizio; e nel giro di pochi anni, rispettando una ciclicità che è propria del cinema cantonese sin dal primo dopoguerra, ha recuperato alcuni dei suoi punti di forza. Suonano la carica i bassifondi e le manovalanze, anche se il ricambio di star system e forza registica è ben lungi dall’essere completato.

Almeno tre segnali, a prescindere dai risultati artistici, fanno concretamente sperare per un «domani migliore». 
1) Il ritorno dei registi medi, di quegli artigiani che un tempo erano la spina dorsale dell’industria. Nomi come Marco Mak, Dick Cho, Chin Man-kei, Herman Yau, Clarence Ford, sconosciuti ai più, hanno ripreso un discorso interrotto qualche anno fa. I veterani hanno riguadagnato la fiducia dei piccoli produttori e sono prolifici quasi quanto prima, sfornando ciascuno non meno di tre / quattro film per stagione.2) Si rivedono i film Cat. III, ossia i prodotti exploitation vietati ai minori, con capofila nobili come Dog Bite Dog (2006, di Cheang Pou-soi) ed Election (2005, di Johnnie To), apprezzati da critica e da un bacino di utenza discretamente ampliato. Ma al tempo stesso riaffiorano guilty pleasure di serie B come Lethal Angels (2007, di Steve Cheng: quasi un remake del famigerato Naked Killer), A Mob Story (2007, di Marco Mak) e Sweet Revenge (2007, di Hoh Ping), che fanno ipotizzare un rientro della scorrettezza politica come sottofilone tematico.3) La ripresa del cinema di genere, e in particolare delle arti marziali, da sempre simbolo di un intero panorama. Jackie Chan e Jet Li sempre sono più impegnati a Hollywood, e invecchiati - peraltro molto bene: si vedano Rob-B-Hood, 2006, di Benny Chan, e Fearless, 2006, di Ronny Yu, giunto anche nei nostri cinema -, ma il ricambio è alle porte: l’atleta Wu Jing, Shaw Yu e Nicholas Tse rinunciano alle controfigure e dimostrano di sapere coniugare uso del corpo e interpretazioni funzionali.
Guardando le pellicole prodotte nella stagione 2006/2007 si evidenzia una netta frattura tra due tendenze all’opposto: da un lato i film prodotti Rob-B-Hoodcon grande dispendio di forze e di mezzi, meglio se aiutati da un paese limitrofo, sia esso la Cina, la Corea del Sud o la Thailandia, dall’altro una serie di opere che costano poco, girate in non più di due settimane senza badare troppo ai fronzoli. Mentre le prime sono studiate con un occhio al box office interno e l’altro, speranzoso, al mercato internazionale, anche straight-to-video, le ultime hanno l’unico scopo di rientrare nelle spese e di intrattenere il pubblico locale. Per questo motivo regie minori, come le pellicole del sempreverde Wong Jing, oggi più che mai in auge come riciclatore di idee e vulcanico ideatore di trend e sottofiloni, coccolano l’audience cantonese infarcendo le scene proposte su grande schermo, come accadeva in passato, di riferimenti contigenti che solo chi abita nell’ex colonia britannica è in grado di comprendere. Ne risultanto esclusi, automaticamente, sia gli spettatori cinesi, ancora invisi per i noti motivi «post-riannessione», e a maggior ragione gli stranieri, occidentali in testa.
Il cinema di Hong Kong ritorna dunque, per il 50% della sua produzione, ad una condizione particolare, hic et nunc, fregandonese di rapporti di buon vicinato e tabelle di marketing. La commedia per esempio, rinata dopo un periodo di globalizzazione, ricomincia a graffiare prendendo come scusa temi quotidiani: il gioco d’azzardo (Kung Fu Mahjong 3 – The Final Duel, 2007, di Bosco Lam; House of Mahjong, 2007, di Marco Mak; Wise Guys Never Die, 2006, di Wong Jing) e i vizi comuni del popolino. The Lady Iron Chef (2006, di Billy Chung) imbastice un conflitto di classe dietro il paravento della cucina; il poco riuscito Dancing Lion (2007, di Francis Ng e Marco Mak) prende quale spunto per la sua critica amara la superstizione e il legame della gente con il folklore. Sempre meno in voga, la farsa corale di capodanno segna il passo e lascia spazio ad autori emergenti, come il burlone Ronald Cheng, ormai il più accreditato emulatore del nonsense demenziale di Stephen Chiau – in cinese: «moleitau» –, che arriva ad un dialogo diretto con il pubblico, sia in veste di attore (Undercover Hidden Dragon, 2006, di Gordon Chan e Dante Lam; e il più posato Mr. 3 Minutes, 2006, di Gordon Chan) che, per la prima volta, di regista. Il suo It’s a Wonderful Life, del 2007, uscito come outsider con velleità commerciali, ha ben impressionato. La mimica e la dialettica del protagonista, ben supportato da un cast variegato di caratteristi – categoria professionale che il cinema di Hong Kong continua a sfornare a getto continuo –, gli  permettono di aggiornare con la sua vis cialtronesca equivoci e gag altrimenti scontati.
Il bipolarismo del nuovo cinema di Hong Kong prevede due politiche economiche e di investimento ben differenti. In realtà la multistratificazione produttiva dell’industra è tale da prevedere un numero anche maggiore di livelli differenti ben definiti. I film di fascia alta, che possono contare sui capitali stranieri, sono sul gradino più alto del podio. E’ proprio questo tipo di cinema, sempre meno locale e sempre più global – verso oriente, beninteso –, che oggi fa parlare di sé: un calderone in cui convivono maestranze cantonesi (il braccio) e autori mandarini (la mente). Ne sono un perfetto esempio i blockbuster che prima spopolano in Asia e poi sfidano i giganti occidentali sul loro stesso territorio di caccia. The Curse of the Golden Flower (2006, di Zhang Yimou) è la summa di un’esperienza transnazionale che vorrebbe portare, nel futuro breve, all’identificazione di queste opere come l’unico «cinema cinese» possibile, non più mandarino né cantonese. La potenza economica di Pechino non prevede Invisible Targetostaggi, la sua brama di controllare ogni processo operativo livella verso il pubblico di maggioranza e appiattisce i contenuti per non scontentare nessuno, partner di cassetta inclusi. Non mancano registi di Hong Kong che pur di avere una chance di fama oltre i propri confini scendono a compromessi. I risultati sono alterni, come nel pedante A Battle of Wits (2006, di Jacob Cheung), e in attesa di nomi autorevoli che si cimentino con questo modello istituzionale – Peter Chan, il cui The Warlords è atteso a fine 2007 – lo scetticismo resta alto, soprattutto per quanto concerne la scarsa libertà ideologica e di manovra.
Sicuramente più interessanti, sia qualitativamente che per prospettive, lavori personali che pur beneficiando di budget rilevanti riescono a sfuggire allo stereotipo e a mantenere tracce della cultura che ha reso peculiare il cinema di Hong Kong. Sovente titoli come Protégé (2006, di Derek Yee) o Invisible Target (2007, di Benny Chan), esempio di coproduzione intelligente, riescono nell’intento di lasciare il segno e scalare le classifiche. La caduta di Andrew Lau e Alan Mak, dopo il boom di Infernal Affairs (2002) e dintorni, è evidente con Confession of Pain (2007), scritto male e diretto anche peggio. L’idea di cinema della coppia d’oro si dimostra obsoleta e poco proficua, se il pubblico stesso non crede nelle loro proposte. Meglio, ad un livello inferiore, il ruolo di sponsor del cinema exploitation che Lau prova a ritagliarsi producendo una serie di film finanziati dalla televisiva Fortune Star. Se anche rimangono poco tempo in programmazione episodi low budget come l’horror The Haunted School (2007, di Chin Man-kei) e il cruento A Mob Story (2007, di Herman Yau) si riscattano con gli introiti delle edizioni home video. Nel medesimo discorso vanno inclusi i fratelli Pang che insieme o in solitaria continuano a convincere poco, e che solo con Diary (2006, di Oxide Pang), unico titolo riuscito su tre tentativi1, riescono a inquietare e far riflettere.



La scarsità dei budget limita l’uso degli effetti speciali, e l’inversione di tendenza riporta l’inventiva e le coreografie in evidenza. Non è un caso che il cinema d’azione ricominci a dare buoni frutti, affidandosi all’esperienza degli stuntman e alla veridicità del pericolo riprodotto su grande schermo. Fatal Contact è un vibrante mélo che riporta alla mente i migliori exploit del Jet Li in panni moderni; Dragon Tiger Gate (2006, di Wilson Yip), altalenante, sfrutta l’esperienza dell’action coordinator Donnie Yen per creare situazioni sempre al limite; il piacevole Fearless cita apertamente, senza raggiungerne le vette, grandi classici del wuxia in costume. A parte lavora Johnnie To, il cui status da autore da festival è ormai riconosciuto all’unanimità, che alterna divertissment autoreferenziali, come Exiled (2006), a lavori intellettuali e ambiziosi. Triangle (2007), co-diretto con i colleghi Tsui Hark e Ringo Lam e presentato all’ultima competizione di Cannes, raccoglie tre frammenti di storie che si amalgamano in un’unica sostanza, diventando unicum spirituale grazie all’autorità dietro alla macchina da presa dei tre artefici. Non pago, il mecenate trova anche il tempo, con la sua Milkyway, di patrocinare il banale debutto nel noir del suo sceneggiatore di fiducia (Eye in the Sky, 2007, di Yam Nau-hoi) e la seconda regia dell’emergente Lam Wing-cheong, Hooked on You, proiettato nei cinema appena una settimana dopo.
La contrapposizione con le produzioni minori è quasi imbarazzante, se si tiene conto deiTriangle soli valori economici in campo. Al contrario di ogni aspettativa, però, il sottobosco proletario, sottopagato ma da onorare per umiltà e coerenza, prosegue nel suo cammino a testa alta. E’ in questo mix di umori e situazioni che si fa riconoscere il gusto tutto hongkonghese per l’ibridazione e per la testardaggine. Il filone sui gambler, per esempio, è una sfida: al gigante «cinesizzato» si contrappone una serie di filmetti di poche pretese ma schietti e spesso dal fascino grezzo, con dialoghi al fulmicotone e una capacità di sintesi sconosciuta ai fratelli maggiori. Bet to Basic (2006, di Paul Chung) o Nothing Is Impossible (2006, di Lam Wah-chuen) hanno dalla loro la parlantina dei protagonisti, la velocità degli sketches, che anche quando citano e scopiazzano risultano irriverenti e rapidi quanto basta.E’ un intrecciarsi di idee e di mode che si focalizzano sul momento, colpiscono, scompaiono e poi riappaiono. La tattica del «mordi-e-fuggi», che ben si sposa alla necessità di lavorare in economia, paga; tanto da far presagire la ripresa della pratica della serializzazione dei cavalli di battaglia. Due seguiti di Kung Fu Mahjong (2005, di Wong Jing e Billy Chung) usciti al cinema in pochi mesi ne sono la perfetta testimonianza, così come la proliferazione di pellicole che clonano il giovane cantante Alex Fong Lik-sun. Di volta in volta la popstar è affiancata ad una starlette coetanea che ne regga il gioco. Le cose vanno meglio quando a contrapporsi a lui è la divetta Stephy Tang, ex membro del gruppo Cookies e pronta a prendere il testimone, da solista, delle Twins, un tempo dominatrici d’Asia e oggi appannate2. I titoli sono intercambiabili, purché vi sia la parola love, così come le trame, romantiche e sdolcinate quanto basta per incantare gli sbarbatelli in cerca di emozioni facili e di carinerie (anche musicali) di sottofondo. Il regista che valorizza la coppia è Ye Nianchen, che con Love Is not All Around (2007) e Marriage with a Fool (2006) propone le situazioni tipiche in un contesto grazioso e garbato.
Superiore alle attese è il discorso introspettivo che permette ad una manciata di pellicole emotivamente intense di riflettere sul proprio ruolo e sul mondo dello spettacolo visto dall’interno. Mr. Cinema (2007, di Samson Chiu) è un dramma populista il cui protagonista non diverge troppo, per intenti schematici, da Nuovo Cinema Paradiso. Maggiormente spensierati Simply Actors (2007, di Chan Hing-kar e Patrick Leung) e Super Fans (2007, di Eric Kot), stralunate digressioni su come il luccicare delle stelle sia effimero. Non a caso Dancing Lion e Super Fans chiudono senza un finale vero e proprio, svelando semplicemente il trucco del dietro le quinte, con finti errori sul set o con Gong Tau: An Oriental Black Magicl’apertura sistematica del campo su regista e troupe.
Poco o nulla dagli altri versanti. Mentre i film sulle triadi calano di intensità – Wo Hu (2006, di Marco Mak) è girato direttamente in digitale, e come A Mob Story, che almeno ha grinta da vendere, ha poco di nuovo da dire – James Yuen imbrocca un noir di qualità con Heavenly Mission (2006), dove un boss della mala si redime ma nessuno gli crede, con conseguenze tragiche. Non va meglio l’horror, probabilmente il genere più in decadenza: Don’t Open Your Eyes (2006, di Clarence Ford) riprende il caos degli intramontabili anni ’80 dei due Haunted Cop Shop; 49 Days (2006, di Lam Kin-lung) tradisce ambizioni alte ma la storia è un pasticcio confuso; House of the Invisibles (2007) propone una nuova santona del brivido, la regista Elfa Lee, al secondo tentativo nel genere dopo Unplugging Nightmare (2004). Peggio ancora fanno Gong Tau: An Oriental Black Magic (2007, di Herman Yau), The Closet (2007, di Dick Cho) e Wife from Hell (2006, di Tommy Law), tentativi disperati di mascherare una realtà orribilmente cheap. Il wuxiapian, un tempo cardine di un’intera generazione, è ormai relegato alle soap televisive, meglio se per le emittenti mandarine, grazie alle quali star del passato, tecnici e veterani si godono un prepensionamento dorato.
Discorso a parte per quei pochi filmaker che l’industria non riesce del tutto ad inquadrare, né tanto meno a normalizzare. Patrick Tam torna dopo quasi vent’anni di esilio e con After This Our Exile coniuga impegno e tradizione nel tratteggiare il rapporto conflittuale, in Malesia, tra un padre buono a nulla e il figlioletto. Non è più cinema sperimentale, neanche nella forma, ma una maestosa lezione di cura per i dettagli che, per fortuna, il pubblico ha voluto premiare. Constatato che non c’è spazio per il cinema indipendente, e che le promesse Barbara Wong e Aubrey Lam hanno abdicato, con gli ammiccanti Wonder Women (2007, diretto dalla Wong) e Men Suddenly in Black 2 (2006, scritto dalla Lam), in favore di un cinema facile e commerciale, restano nello stesso periodo solo l’esordiente Susie Au, con il discusso Ming Ming, dallo stile impazzito, e Carol Lai, con il morboso simil-horror Naraka 19.
Due grandi autori come Ann Hui e Fruit Chan, mantenendo alti i loro standard, hanno passato il confine e sono tornati alla terra natìa, rispettivamente con The Postmodern Life of My Aunt (2007, della Hui) e Bliss (2006, di Sheng Zhimin, ma prodotto da Chan), entrambi girati direttamente in mandarino. Il primo, in particolar modo, è una scacchiera agrodolce dove gli attori, tra cui uno straordinario Chow Yun Fat, sanno mettersi alla prova con classe.A sorpresa, in extremis, Heavenly Kings (2006, debutto pluripremiato dell’attore Daniel Wu) e MyAfter This Our Exile Mother Is a Belly Dancer (2006, di Lee Kung-lok), appartenente al progetto Focus First Cuts curato da Andy Lau. Due commedie consapevoli – il primo è un finto documentario su una boy band, il secondo una dissertazione sulle idiosincrasie maschiliste nell’ex colonia britannica – che nonostante le apparenze frivole vanno a fondo toccando nervi scoperti e psicopatologie quotidiane, dimostrando che anche nella sua dimensione meno superficiale il ritrovato cinema di Hong Kong ha molto da dire.

Note:
1. Gli altri due sono Re-Cycle, 2006, diretto in coppia, e Forest of Death, 2007, del solo Danny Pang. Non fa eccezione il mediocre The Messengers (2007), esordio hollywoodiano di Oxide e Danny Pang prodotto da Sam Raimi.
2. Se musicalmente le due cantanti Charlene Choi e Gillian Chung mantengono lo scettro del cantopop per giovanissimi, al cinema hanno perso molti punti, in special modo quando recitano in coppia. Twins Mission (2007, di Benz Kong), uno scadente thriller che mescola kung-fu e elementi fantastici, è la peggior conferma di un binomio che non stupisce più.