Categoria: FILM

The Pye-DogAbbandonato dal padre gangster (George Lam), il piccolo Wang (Wen Jun-hui) assiste al suicidio della madre, ormai fuori di sé (Loletta Lee). Lo choc è tale da togliere al bimbo la parola; presto il suo destino si intreccerà con quello di un altro orfano spiantato, Dui (Eason Chan), gangster di mezza tacca che fa il bidello in incognito nella scuola di Wang. Tra Wang, Dui e la bella insegnante di mandarino (Lin Yuan) nascerà un'intesa speciale.

Sullo spaesamento e la sensazione di assenza paterna o materna che si avvertiva ai tempi dell'handover molto si è detto e scritto e non è il caso di tornarci su per l'ennesima volta. Quel che è certo è che da allora non si sono visti molti film pessimisti come The Pye-Dog, girato da Derek Gwok Ji-kin tenendo ben presenti i modelli di quella stagione, caratterizzata sì da grande inquietudine, ma pure dagli apici artistici raggiunti grazie ad essa. Si torna al noir-mélo, genere d'elezione per Hong Kong, ma lo svolgimento di un canovaccio che non fa nulla per allontanarsi dai topoi più attesi non è stilizzato, funambolico, coreografico o in qualche modo sperimentale.
Traspare solo – e si presuppone sia voluta al 100% - l'ingenuità con cui gira Gwok, calatosi in tutto e per tutto nei panni di un bambino che osserva il mondo con gli occhioni sbarrati e lo sguardo tra il curioso e l'impaurito. L'infanzia rubata, che accomuna i due inseparabili protagonisti – bambino cresciuto e bambino tout court – è d'altronde il fulcro di The Pye-Dog già dall'incipit, in cui Wang attribuisce a un presa eccessiva della fatina i segni che porta in volto e quelli che ne marchiano l'animo, per arrivare a una delle scene più riuscite, in cui i due affrontano scherzosamente le loro tragedie personali, gareggiando a chi è stato più sfortunato (una scena di quelle che si vedono ancora e soltanto a Hong Kong). Non manca neppure una sequenza soprannaturale che sembra presa da The Great Yokai War di Miike, con un demone degli alberi in veste di boogeyman assoluto.
In questa vicinanza truffautiana al mondo dei fanciulli, la figura paterna è assente e quella materna troppo fragile per potervi supplire, anche se Dui ci prova fino in fondo a ricostituire un nucleo familiare impossibile e artefatto, tragicamente posticcio come quei kleenex appallottolati che sbocciano alla prima pioggia o il teatrino di cartone allestito con tanto amore per festeggiare il Natale. Ma il padre naturale, anche se in sorte capitasse il peggiore possibile, rimane l'unico legittimato a essere family, che piaccia oppure no.
Seppur nell'ambito di uno sviluppo da noir-mélo hongkonghese con tutti i crismi (compreso Eric Tsang col parrucchino nero alla Metade Fumaca), non mancano le citazioni hollywoodiane: Diu cita esplicitamente Forrest Gump e la canzone finale è You Light Up My Life, una vecchia hit strappalacrime di Debby Boone che mette in crisi anche il più die-hard dei mélo-maniaci hongkonghesi. A fianco di una Lin Yuan impalpabile, maiuscola la prova dei due protagonisti, con un Eason Chan sorprendentemente a fuoco nei panni di un personaggio complesso e ricco di sfaccettature.

Hong Kong, Cina, 2007
Regia: Gwok Ji-kin
Soggetto / Sceneggiatura: Gwok Ji-kin, Lung Man-hong
Cast: Eason Chan, Lin Yuan, Wen Jun-hui, Eric Tsang, George Lam