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 Non si può certo dire che nel 61° Festival del Film di Locarno, appena concluso, il cinema dell’estremo oriente abbia fatto da protagonista. E’ stata anzi l’edizione meno rappresentativa, tra quelle dell’ultimo decennio, per la cinematografia far east, relegata a un ruolo marginale. Seguendo il trend di Cannes, si è dato gran risalto alla produzione sudamericana. Ci vorranno Venezia e San Sebastian a ribaltare questa moda festivaliera?

 

Quasi per compensazione, gli organizzatori del festival ticinese hanno programmato una giornata, l’ultima, dedicata al Giappone, antipasto per l’anno prossimo, in cui la città svizzera dovrebbe aprire le porte al Sol Levante. E’ stato omaggiato il manga, del 1959, Gegege no Kitaro, con la proiezione del suo quinto e ultimo adattamento, dell’anno scorso, in una serie anime, e dei due lungometraggi live action Gegege no Kitaro (2007), e il sequel Gegege no Kitaro: Sennen noroi uta (2008). In tutte queste opere si viaggia in un universo fantasy, popolato dagli yokai, misteriose creature del folklore giapponese, di cui il protagonista Kitaro è un esponente. Nei due film, entrambi successi di botteghino, il regista Motoki Katsuhide rielabora il soggetto iniziale, conferendo un profondo significato ecologista, sul modello di The Raccoon War dello Studio Ghibli. Purtroppo gli effetti speciali non sono all’altezza nel rendere credibili i personaggi antropomorfi, tra cui comunque si segnala una sempre meravigliosa Tanaka Rena nei panni di una donna gatto dai denti acuminati. Più interessante, sempre nell’omaggio all’animazione giapponese, un anime di propaganda bellica del 1945, Momotaro umi no shinpei, a lungo considerato perso fino al suo ritrovamento nel 1984. Anche qui un personaggio del folklore, Momotaro, unico dalle fattezze umane tra i tanti animali antropomorfi, graziosi e carini in stile Disney, che operosamente portano avanti l’eroica impresa bellica contro i cattivoni angloamericani.
(Solo) due film orientali sono stati presentati nel Concorso internazionale, entrambi premiati con un riconoscimento della Giuria anche se, visto l’andazzo, era lecito aspettarsi qualcosa di più. Il sudcoreano Daytime Drinking, opera prima di Noh Young-soo, è un road-movie «etilico», incentrato sul vagabondare di un ragazzo in impervi paesaggi coreani, tra una sbronza e l’altra. Un antico proverbio, citato dal regista, vuole che, se si beve alcool durante il giorno, di sera non si è in grado di riconoscere i propri genitori, a indicare i maggiori effetti di ebrezza in ore diurne. Il bere non ha nessuna connotazione eticamente negativa, assume anzi una funzione catartica, facendo agire i personaggi d’istinto e mostrando così la loro vera natura. Il viaggio serve a rappresentare le infinite diramazioni che si presentano nella vita. Girato quasi esclusivamente in esterni, a causa del budget limitatissimo, nella regione del Gangwon, il film si ispira dichiaratamente al cinema di Hong Sang-Soo e in particolare a Turning Gate.
Notevole anche il film cinese in concorso, Feast of Villains di Pan Jianlin, allievo di Jia Zhangke. E’ la storia di un individuo marginale, un cane randagio come lo definisce il regista, uno di quei personaggi destinati a soccombere in quella lotta alla sopravvivenza su cui ormai si fonda la società cinese. Fung-gui è costretto a vendere un rene per trovare i soldi per le cure mediche del padre, gravemente malato. Ma le sue disavventure non finiscono qui. Quello che colpisce di questo film è una regia asciutta, rigorosa, che non indulge in scadimenti emotivi nel raccontare questa vicenda di disperazione. Sembra che il regista abbia fatto tesoro della lezione di Bresson o dei Dardenne. Le sue intenzioni sono evidenti già dalla prima scena che segue Fung-gui in bicicletta sullo sfondo del Nido d’uccello, lo stadio olimpico di Pechino. Verrà mostrata una Cina dei bassifondi, lontana da quella scintillante che verrà esibita al pubblico mondiale.
Forse la cosa più interessante del festival è stata Bootleg Film, presentato nella retrospettiva delle opere membri della giuria. Si tratta di un lavoro del 1998 del giapponese Kobayashi Masahiro, che vinse l’anno scorso, tra lo scalpore generale, con il suo film ultraminimalista The Rebirth. Bootleg Film non ha nulla in comune con il film trionfatore nel 2007, è un road movie in bianco e nero, girato nei paesaggi innevati di Hokkaido, che vede protagonisti due amici, un boss della yakuza e un poliziotto, insieme in macchina diretti a un funerale. Evidenti i debiti espressivi con la Nouvelle Vague, in particolare con Tirate sul pianista e I 400 colpi di Truffaut, ma anche con il cinema di Jacques Demy. Ma con una buona dose di ironia, Kobayashi fa citare dai suoi personaggi, nelle loro battute, tutto un campionario di cinema hollywoodiano recente, da Tarantino ai Coen. Conferma l’eclettismo di questo autore, scoperto dal festival svizzero.
Anche se pochi, i film orientali di quest’ultima edizione confermano la vocazione di Locarno: portare alla ribalta opere prime meritevoli, auotori inediti, in modo da differenziarsi il più possibile dalle luccicanti passerelle glamour di Venezia e Cannes.