Categoria: INTERVISTE

Peter Chan

INTERVISTA A PETER CHAN

A distanza di nove anni da Perhaps Love, che chiuse l’edizione della Mostra del Cinema nel 2005, Peter Ho-sun Chan torna a Venezia con Dearest, presentato fuori concorso. Opera toccante sulla scomparsa e il ritrovamento di un bambino, il film è ispirato a una storia vera della Cina contemporanea. Ne abbiamo parlato con il regista, presente al Lido insieme alle attrici protagoniste della pellicola, Zhao Wei e Hao Lei, che hanno interpretato rispettivamente la madre adottiva del bambino e quella biologica.

Il tema della ricerca di un figlio scomparso era trattato anche nel segmento che avevi realizzato per il film collettivo Going Home, intitolato Three. Per quale motivo ti interessa questo argomento?

Sono tornato su questo tema solo per via della storia di cui sono venuto a conoscenza e che ho voluto raccontare, dunque non c’è nessuna relazione diretta con Going Home. Quando ho girato quel film non ero ancora un genitore, e non credo che Going Home abbia qualcosa a che vedere con il mio essere padre. Ora sono un papà molto premuroso, ma credo che la vicenda che ho raccontato in Dearest mi avrebbe colpito anche se non fossi stato genitore.

Puoi raccontarci qualcosa degli eventi di cronaca che sono al centro del film? È stato forse un documentario a ispirarti?

Sono venuto a conoscenza della vicenda circa un anno fa, e ho avuto subito l’idea di farne un film: si è trattato di un processo molto semplice, di certo più veloce della maggior parte delle normali produzioni. Non era esattamente un documentario quello a cui mi sono ispirato, bensì un programma di news di circa mezz’ora, andato in onda sulla CCTV (China Central Television). Era uscito probabilmente sei mesi prima che lo vedessi su un dvd che mi avevano dato. È stata la prima volta in cui sono riuscito a vedere in un reportage qualcosa che mi ispirasse a fare un film.


Dearest 3

Sei rimasto fedele alla storia vera?

È esattamente la stessa storia, con alcune piccole modifiche. E, in minima parte, romanzata per esigenze drammaturgiche. La vera coppia, ad esempio, non era separata. Abbiamo deciso, con lo sceneggiatore Zhang Ji, che doveva esserci una maggior varietà di coppie, come ci si aspetta dallo stile di vita delle grandi città cinesi come Shenzhen o Pechino. Quando ti trasferisci in una metropoli, ti rendi conto che i tuoi sogni sono diversi. E questo illustra ancora meglio le caratteristiche della middle class che si sta sviluppando.
L’episodio della richiesta di un certificato di morte per il figlio scomparso per avere un nuovo certificato di nascita - che nel film viene rivolta a una coppia dell’associazione dei genitori di bambini scomparsi - è capitato davvero ai personaggi principali coinvolti nella vicenda. Diciamo che l’ho diviso in più parti e ne ho distribuito i pezzi lungo la narrazione. Per quanto sappiamo, poi, la madre adottiva non conosceva effettivamente nulla della vera origine dei bambini. Rimane ignota ad esempio quella della figliastra: quasi sicuramente era una bambina abbandonata, perché l’abbandono di una figlia femmina è piuttosto comune in Cina per la politica del figlio unico, in quanto una figlia impedisce di avere un altro figlio maschio. La bambina, nell’incertezza, viene portata via perché quella rimaneva comunque una famiglia di rapitori. Certo, la donna andava a trovare la figliastra molto spesso all’orfanotrofio, ed è vero che poi si scopre incinta. Così molti hanno interpretato questa situazione come un segnale di speranza. Ma come si può anche solo pensare che quella gravidanza sia una speranza? Pensavo rientrasse in una mentalità cinese una lettura in tal senso. Sono cinese, ma non sono quel tipo di cinese - e tra l’altro sono nato a Bangkok. Ma poi mi sono reso conto che è un’interpretazione che hanno dato anche altri di diversa nazionalità vedendo il film.
Ciò che importa è il tempo che si passa con un figlio: che sia da genitori biologici o meno, per me è completamente irrilevante. Anch’io sono un padre, e non sono riuscito a entrare in sintonia con mia figlia prima dei suoi tre anni. Forse è qualcosa che mi è capitato perché sono suo padre e non sua madre, per la quale questo tipo di relazione è probabilmente più naturale.

Nel film volevi inserire anche elementi di denuncia di una piaga come quella della compravendita di bambini in Cina?

Si tratta in effetti di un problema sociale rilevante, che conta 50.000 casi all’anno. Un dato che naturalmente va rapportato con le dimensioni demografiche del paese. Il traffico di bambini è un crimine perseguibile penalmente, ma solo per i trafficanti, non per chi compra i bambini. Questo credo che sia il vero problema, perché, come dice un personaggio nel film, se c’è qualcuno che vende è perché c’è qualcun altro che vuole comprare. In Cina la psicosi del rapimento di un figlio è molto forte. Anche le mie attrici erano molto spaventate nel lavorare a questa storia. In Cina devi guardarti alle spalle ogni giorno. Il mercato clandestino principale non è quello del traffico d’organi, ma quello del traffico di bambini. Che nasce dalle famiglie delle aree rurali che cercano dei figli. Famiglie che magari hanno già una figlia, e per la politica del figlio unico non possono fare richiesta per averne uno maschio, e dunque si rivolgono a questo mercato. Inoltre, secondo la tradizione cinese buddhista, quando si muore è il figlio maschio a portare le tue ceneri, in una specie di continuità simbolica.

In Dearest mantieni un perfetto equilibrio tra cinema di genere e cinema sociale. Racconti un fatto di cronaca con grande afflato e senso narrativo. Come hai lavorato per raggiungere questa armonia?

Io non voglio presentare il mio come un film di denuncia. Ero solo stato attratto e commosso da questa storia incredibile, è qualcosa che uno scrittore di fiction non sarebbe stato capace di concepire. Una volta scelta la storia ci abbiamo lavorato, aggiungendo diversi livelli di lettura. Alla fine è probabilmente il mio film con una maggiore presa di coscienza sociale, nonostante abbia tentato di non farne un film sociale. Penso che quello che mi ha veramente attratto, al di là della storia, delle emozioni e dell’effetto che questa ha avuto su di me, è che sia dotata di una struttura davvero unica, che permette un ribaltamento di prospettiva. Lo spettatore si trova così a dover cambiare punto di vista morale.
Ci sono scene in cui cerco di non esprimere giudizi su nessuno. Per esempio, in quella ambientata alla stazione dei bus, dove la madre adottiva viene quasi linciata, ho ritratto i genitori dei figli scomparsi come personaggi davvero patetici, delle vittime. E, con il cambio di prospettiva, vediamo riproposta la stessa dinamica che si era vista precedentemente con i contadini del villaggio che inseguivano la coppia che si riprendeva il bambino legittimo. Ho rappresentato gli abitanti del villaggio in uno stato di isteria, ma si tratta di un’isteria comprensibile. Questo tipo di personaggi esiste davvero, anche se magari qualche dettaglio è stato esagerato.

Avete incontrato i veri protagonisti della storia. Com’è stato il loro confronto con gli attori che li avrebbero interpretati?

È stata abbastanza dura. I genitori dei figli rapiti volevano sempre parlare di questi ultimi, che ancora stanno cercando. Uno dei padri mi ha anche chiesto se alla fine del film potessi mostrare la foto di suo figlio, nel caso qualcuno degli spettatori lo riconoscesse.

I personaggi femminili nel film sono più forti degli uomini. È una tua scelta o è la situazione reale che hai raccontato?

È la realtà della storia che ho raccontato. È qualcosa di cui non ero completamente consapevole. È strano come, a volte, capiti di scoprire il proprio film mentre lo si sta girando. In particolare, penso al personaggio della matrigna del villaggio, quando alla fine si accorge di essere incinta. Avendo vissuto in una realtà rurale dove la donna è valutata per la sua capacità di dare figli, immaginate che tipo di vita può aver avuto, essendo stata considerata sterile sino a quel momento. E alla fine, di fronte alla scoperta della sterilità del marito, ha quella reazione disperata che ho mostrato nel film. Questa è stata la storia delle donne cinesi per migliaia di anni, non è solo una storia contemporanea.


Vicki Zhao

INTERVISTA A ZHAO WEI

Nota anche come Vicki Zhao, è una delle Four Dan Actresses (con Zhang Ziyi, Zhou Xun e Xu Jinglei), le quattro attrici di maggior successo in Cina. Ha lavorato, tra gli altri, con Ann Hui, John Woo, Stephen Chow, Zhang Yuan. Ha anche diretto un film, So Young, ed è anche cantante.

Come hai lavorato sul tuo personaggio che è basato su una persona reale?

Di solito di notte guardo molti documentari, e da questo ho acquisito alcune nozioni su questo fatto e mi ha aiutato a costruire il personaggio.

Nel film sei una persona vissuta, provata, imbruttita. C’è stato un lavoro di make-up?

No, nessun trucco. Ero una contadina, ero molto dentro al personaggio, riuscivo a provare quello che il personaggio provava e questo ha aiutato a cambiarmi il volto.

Dato che eri così dentro al personaggio, cosa hai provato sulla vicenda? Chi credi sia la vera madre? La madre biologica o quella che ha cresciuto il bambino?

È molto difficile. Ovviamente direi che entrambe sono la madre di questo bambino, ma forse quella che conta veramente è quella che cresce il bambino. Può succedere che una dia alla luce un bambino e poi se ne vada o dia il figlio in adozione, ma quella che davvero conta è quella che cresce il bambino. Il film è importante perché mette in luce un problema che esiste nella società cinese. Un giornalista mi ha chiesto di recente se questo film sottolinea l’importanza di prendersi cura dei figli, ma io ho risposto che non è così, il film non parla di prendersi cura dei propri figli, ma di come l’intera società dovrebbe prendersi cura meglio dei bambini. Non è esclusivamente una colpa dei genitori, bensì della società.

Questo è il motivo per cui il film è così intelligente, dato che ti fa riflettere su chi sia la vera madre. È stato stressante psicologicamente interpretare questo ruolo così drammatico? Lo chiedo perché hai dovuto dare così tanto.

Sì è stato molto spossante. Anche fisicamente, anche se non me ne rendevo conto mentre giravamo, ma solo dopo che la cinepresa era spenta.

Nel film si mette in discussione la politica del figlio unico. Qual è la tua posizione in merito?

Credo che sia giunta l’ora di andare oltre questa politica, ne abbiamo bisogno come cinesi. È una cosa strana e difficile, perché in questo modo l’unico figlio dovrà prendersi cura di entrambi i genitori in vecchiaia, perché non esiste più una famiglia estesa dove esista l’aiuto reciproco. Io ho un unico figlio al momento, ma spero in futuro di poterne avere di più.

Tutti i personaggi femminili del film sono molto forti, anche le bambine, mentre quelli maschili, anche se in alcuni casi positivi, non lo sono altrettanto. Quanto di questo aspetto credi che sia opera del regista?

Il regista mi ha aiutato molto nella realizzazione di questo aspetto e mi ha suggerito di provare davvero quello che il personaggio deve avere provato, di mettermi in relazione con le emozioni del personaggio, e di capire che tutte queste emozioni si trovavano già nel mio cuore. Andavano solo trasmesse all’esterno, aiutandosi con la propria mimica.

Nel film reciti in un dialetto. Hai dovuto impararlo?

No, è davvero il mio dialetto d’origine, non ha dovuto impararlo apposta. È quello della regione di Anhui, nel centro della Cina.

Nella tua poliedrica carriera c’è anche un film da regista, con il film So Young. Continuerai a fare entrambe le cose?

È davvero un film di cui sono orgogliosa! Amo molto la creatività ed è per questo che volevo fare la regista. Ho fatto un master in regia cinematografica dopo la laurea in recitazione. Credo che farò un altro film da regista e poi proseguirò da attrice.

Sei stata l’ultima Hua Mulan al cinema, nel film del 2009 Mulan: Rise of a Warrior. Come è stato lavorare su questo personaggio leggendario?

Credo che ogni donna in Cina vorrebbe essere Hua Mulan, è un sogno molto diffuso. Quindi quando me l’hanno chiesto ho detto ero entusiasta.


INTERVISTA A HAO LEI

Molto attiva nei drama, al cinema ha lavorato con Lou Ye, Pang Ho-Cheung, Jia Zhang-ke e, un'altra volta, con Peter Chan. Figura anche nel cast di un altro film presente a Venezia 71, The Golden Era di Ann Hui.

Che lavoro ha fatto su questo personaggio?

La sensazione che si riceve da questa figura è abbastanza triste, e comunicare questo tipo di tristezza è stato difficile. Penso che la caratteristica principale di questo personaggio sia che non esprime mai realmente le sue emozioni di fronte agli altri. Non credo dunque che sia un personaggio rinunciatario ed è condizionata dal rapporto con l’ex marito. Nel film il personaggio si pente della separazione e pensa che avrebbe forse fatto meglio a rimanere col marito, e se l’avesse fatto forse il figlio non sarebbe stato rapito. In quanto madre sono capace di mettermi in relazione con questo tipo di personaggio e i suoi sentimenti. Sono madre di due gemelli maschi, per cui sono stata fortunata.

Credi che questo film possa stimolare un dibattito in Cina sull’opportunità di mantenere la politica del figlio unico?

Ora la politica è abbastanza cambiata ed è meno restrittiva. Credo che questo film sia più incentrato sul tema dei rapimenti e del mercato dei bambini.

E com’è stato l’incontro con la donna sulla quale il tuo personaggio è basato?

L’ho incontrata dopo il film. È stato molto interessante perché, non so come mai, ma era molto simile a me nel film, a come avevo interpretato il personaggio. La cosa bella è stata che questa donna non ama esprimere i suoi sentimenti, proprio come viene rappresentato nel film.

Oltre a Peter Chan, con cui hai già lavorato in The Warlords, nella tua filmografia figura anche un cortometraggio di Jia Zhang-ke, Cry Me a River. Con chi preferisci lavorare? Preferisci il cinema indipendente o le grandi produzioni?

Sono stata abbastanza fortunata perché di recente ho fatto film che hanno riscosso un discreto successo internazionale, tanto che sono a Venezia per la seconda volta, dopo esserci venuta per il film di Jia Zhang-ke. Mi è capitato di lavorare con registi che mi piacevano anche prima di poter recitare per loro, come Jia e Peter Chan. Ora mi piacerebbe fare un film con Ang Lee.

 

(Venezia, 29 agosto 2014)