Categoria: STRADE PERDUTE
Police ConfidentialIn Infernal Affairs III trova conferma una tendenza del cinema recente di Hong Kong: l'ex colonia cerca di sedurre la Cina inserendo attori e location mainlander. Non è in realtà una novità assoluta, già a metà anni '90 accadeva lo stesso, basti pensare a film come One and a Half o Police Confidential, entrambi con la star cinese Zhang Fengyi. La differenza, piuttosto, sta nei tempi e nei modi: l'impiego di Zhang, che veniva dal successo commerciale di Farewell to My concubine, poteva essere considerato una speculazione per sfruttarne le potenzialità e l'immagine al box office.

Oggi, in film come Sound of Colors, Beijing Rocks o May & August la rincorsa al pubblico cinese non ha più giustificazioni di facciata, è spudorata: cosa pensare altrimenti di film girati in gran parte in Cina, come The Floating Landscape, solo per incensare i paesaggi della madrepatria? O di pellicole in cui il bilinguismo - cantonese e mandarino: si pensi a Men Suddenly in Black - non necessita nemmeno della minima spiegazione ma viene venduto come dato scontato? In tutto ciò si ha la sensazione di trovarsi in un momento cruciale della storia dell'industria cantonese: era dai tempi degli Shaw, dove la differenza tra dialetti influenzava notevolmente i diversi tipi di produzione, che non si assisteva a una simile convivenza linguistica forzata.
L'impressione è che, circolarmente, se il parallelo storico fosse fondato, in cerca di un nuovo mercato, il cinema di Hong Kong vada di nuovo a tracciare un solco tra esperienze differenti: il cinema mandarino sarà quello ricco, in auge tra gli ambienti alto-borghesi e di serie A; quello cantonese, al contrario, tornerà ad avere un ruolo marginale, di nicchia, popolare e adeguato ai gusti dei ceti medio-bassi. Presumibilmente, rimanendo curiosi circa l'avvenire del dialetto cantonese e di conseguenza sui suoi possibili impieghi in ambito cinematografico, la verità starà nel mezzo, anche se a questo punto l'anno 2046 si prospetta come temuto punto di non ritorno, ancora di più del sorpassato 1997.
L'ingerenza della Repubblica Popolare si manifesta oggi in mille modi, dalla co-produzione tramite la China Film Commission, che ormai mette mano a tutti i prodotti mainstream, soprattutto quelli della Filmko, come Truth or Dare: Sixth Floor Rear Flat o Star Runner. Gli autori bravi dissimulano le imposizioni dall'alto: in July Rhapsody si respira un'aria nostalgica che si rifà soprattutto ai testi classici della letteratura per inneggiare alla cinesità collettiva. Niente di diverso, tutto sommato, dall'ingenuità nazionalista delle arti marziali di Bruce Lee. Stanley Kwan va oltre e con Lan Yu costruisce uno sberleffo oltraggioso ai danni della rigida censura cinese, andando a girare in loco una storia scomoda di omosessualità e amore proibito. Appurato che aldilà di qualche indicazione mirata - censurare tutti i futuri film con orrori, sangue e sesso troppo in evidenza, tanto che il secondo The Twins Effect non sarà più a base di vampiri - il bigottismo non ha ancora colpito del tutto il sistema ma semmai ne ha accelerato la purificazione (relegando, per esempio, l'intero universo dei Cat. III allo straight to video in digitale), come interpretare il futuro di un'industria oggi libera e vitale, con pochi vincoli e, fatti due conti, ancora molto fruttuosa nonostante la flessione degli incassi?
E, seconda domanda rilevante, come ci si comporterà d'ora in avanti nei riguardi del resto dell'Asia? Se un tempo Taiwan e Singapore erano territorio di conquista, ormai sono location abbandonate, tranne rari casi (sempre di tendenza, come le trasposizioni delle graphic novels di Jimmy Liao) non rendono quanto in passato pur non avendo sviluppato una propria filmografia in sostituzione. Meglio allora la Thailandia di Runaway e A Fighter Blues, più economica e con una platea in crescita. La Sud Corea è troppo cara, troppo avanti per abbassarsi, come faceva a metà anni '80, alle logiche di mercato di Hong Kong, tanto che a livello di riscontri rendono di più le soap televisive che non i successi per il grande schermo.
Il rapporto con il Giappone risente dell'effetto boomerang, continuamente teso tra amore e indifferenza: subito dopo l'handover i produttori vi andavano (con Okinawa: Rendez-Vous come capofila), cercavano finanziamenti lì, scritturavano stelle nipponiche da affiancare ai loro divi (le varie Tokako Tokiwa e Noriko Fujiwara) e cercavano di piazzare le proprie dive nel paese del Sol Levante, da Vivian Hsu a Kelly Chen. Oggi l'innamoramento sembra meno intenso, i rapporti tra i due paesi sono da sempre tesi e dovendo scegliere una strada hanno preso la direzione opposta rispetto a un rischio non calcolato. Se a una simile logica si è adattato persino un estimatore incondizionato del Giappone come Jingle Ma, che dopo i fasti di Tokyo Raiders e Para Para Sakura è passato al simpatico mélo mainlander Why Me, Sweetie?!, significa che il processo, a livello psicologico e materiale, potrebbe essere ormai irreversibile. E come farà adesso il povero Sam Leong, che nella sua personalissima dialettica sino-giapponese, girando in patria (The Stewardess, Color of Pain, Maniacal Night) e fuori (Perfect Education 3), ha sempre incluso riferimenti, parodie, sberleffi e moniti transnazionali?