Categoria: LA COMMEDIA ALL'HONGKONGHESE

Games Gamblers PlayMichael Hui è un genio. Ormai è appurato, non c'è più bisogno di studiare un autore sottovalutato o di ridare il giusto spazio all'interno della storia del cinema cantonese a uno dei suoi indiscussi protagonisti. Michael Hui è stato il primo vero attore comico della storia del cinema di Hong Kong: prima di lui, poco o nulla, dopo di lui solo Stephen Chiau, che senza l'illustre precedente magari non ci sarebbe stato o avrebbe fatto cose totalmente differenti. E' anche inutile ormai stare a disquisire su chi abbia riscoperto Michael Hui, in Europa in particolare e in occidente in generale. Fatto sta che con la ristampa dei suoi esordi per gli Shaw sono venuti a galla gli ultimi preziosissimi tasselli di un mosaico sempre più particolareggiato e importante. Hui proviene dal mondo della televisione, dove con i due fratelli Sam e Ricky ha condotto show di grande successo, che ne hanno affermato l'immagine popolare presso il grande pubblico. I suoi esordi su piccolo schermo rientrano poi in un discorso più generale sulla rinascita di inizio anni settanta del cinema cantonese, cominciata a tutti gli effetti a partire dal grande successo di The House of 72 Tenants di Chor Yuen (in cui proprio Ricky Hui ha una minuscola particina). Michael comincia da solo, grazie a un grande vecchio come Li Han-hsiang, che lo sceglie come terminale del suo tardo modo di concepire il cinema. The Warlord, The Happiest Moment, Scandal e Sinful Confessions sono esclusivamente frutto del carattere ormai ombroso dell'ex mogul, rientrato da poco agli Shaw dopo il fallimento della parentesi taiwanese. Del Michael Hui a venire non c'è ancora traccia, anche se il suo spirito in qualche modo si intuisce.
Subito dopo l'imprimatur di Chor Yuen, Michael Hui, a partire dalla sua prima regia, Games Gamblers Play, porta per mano il cinema cantonese alla sua fase adulta, e non lo molla neanche quando il giovane è schiaffeggiato con asprezza dalla ribellione (post-adolescenziale?) della New Wave. Tra i suoi film e le farse in costume dell'epoca precedente, degli Shaw, c'è un abisso: Li Han-hsiang, primo vero scopritore, ha una mentalità antiquata al confronto; nonostante il talento e il cinismo più volte messo in evidenza da Stephen Teo1, i suoi lavori risultano ancora nettamente indietro. Prima di tutto come stile (l'opulenza degli interni e la farsa rigorosamente in costume, retrodatata) e come approccio alle tematiche: tra il tutto sommato colto The Warlord, che analizza genio e follia di un nordista desideroso di conquistare il sud e un The Last Message sembrano passate almeno un paio di generazioni, non appena tre anni. Gli argomenti sono gli stessi, ma la pellicola fengyue tipica di Li in mano a Hui diventa strumento corrosivo che coinvolge attivamente la contemporaneità - e di conseguenza l'audience -, non amara constatazione del fallimento umano. Entrambi i registi spingono sul fattore sociale, per deridere usi e costumi radicati, ma con ansie e scopi all'opposto: il primo muove i burattini dall'alto della sua delusione, o forse della sua noia, il secondoThe Last Message prova a spronare i concittadini a rivedersi al cinema e ad analizzare le proprie idiosincrasie. Hui, che si espone in primissima persona con personaggi quasi mai gradevoli, caustici e destinati a imparare sulla propria pelle la lezione, è partecipe e per questo raccoglie la simpatia generale, perché si dimostra sincero, sempre sul baratro del disastro, perfettibile. Quindi da un lato Li arriva con il suo decadentismo morale all'esplicazione di un pessimismo cosmico, da cui nessuno si salva, dall'altro Hui trasuda ottimismo e vitalità che contagiano lo spettatore medio-borghese, a suo agio in una società in piena ripresa economica e desideroso di progredire, anche a costo di fare il passo più lungo della gamba.
In veste di regista Michael Hui non è un fulmine di guerra - accumula troppe gag e spreca energie in eccesso finendo poi per sfruttare la vignetta, tra quelle proposte, che riesce a maneggiare meglio -, non possiede la stessa spigliatezza di quando recita. Il suo essere attore è quindi complementare al suo essere regista, non ne può prescindere. E infatti se pure in una ipotetica terza fase della sua carriera tornerà ad essere diretto da altri - onesti professionisti come Wu Ma, Anthony Chan, Phillip Chan o Clifton Ko - mai si prenderà la briga di girare un film di cui non sia lui stesso l'unico vero protagonista. Dopo la prima parte secondo Li Han-hsiang, Hui passa alla regia e si mette in proprio: richiama i due fratelli e li coinvolge sempre di più nel prosieguo degli anni. Michael non è un tiranno, e anche se a lui spettano i ruoli di maggiore minutaggio gradualmente Sam e Ricky, che aveva debuttato al suo fianco già in Sinful Confessions, conquistano spazi e spessore. Mentre il fratello maggiore ha lo straordinario merito di confermare definitivamente il dialetto cantonese nel cinema di Hong Kong, tanto da costringere gli Shaw a doppiare i loro film originariamente girati in mandarino, Sam lavora su un altro livello, quello musicale. A lui spetta un primato non da poco, la popolarizzazione e la commercializzazione del canto-pop, quella miscela canora a metà tra rock e melodiche smielate che parte dalle canzoni di testa che il già popolare cantante scrive, all'inizio insieme al geniale Joseph Koo, poi da solo, per aprire e chiudere i film di Michael. Il suo ruolo nella creazione delle pellicole in cui recita cresce a dismisura, tanto che a partire da Security Unlimited, il capolavoro assoluto del trio insieme all'esilarante The Private Eyes e al quasi autobiografico The Contract, si occupa anche di co-sceneggiare e di altri aspetti tecnici non secondari. Dopo poco meno di dieci anni di successi ineguagliabili la famiglia si spezza: Michael apre una nuova fase del suo lavoro di autore comico e lascia partire i fratelli alla ricerca di una dimensione meno Security Unlimiteddipendente. Non è una separazione indolore e consensuale: di mezzo ci sono anche i problemi contrattuali di Michael con la Cinema City, con cui si impegna in una tenace battaglia legale. Sam passa alla leadership assoluta con la serie Aces Go Places, dallo strepitoso responso pubblico e in breve diventa uno degli attori più noti e pagati dello star system, pur appiattendo la sua recitazione. Ricky, che con astuzia già frequentava altri registi in casa Cinema City come John Woo, uno dei registi che meglio ne ha valorizzato la maschera tragicomica, e Ronny Yu - il cui pregevole horror The Trail è scritto e prodotto da Michael -, trova la sua nicchia nella popolare serie Mr. Vampire e nell'horror comico in generale (i due The Haunted Cop Shop; Operation Pink Squad; Ghost for Sales), senza abbandonare del tutto il fratello maggiore.
Per capire meglio l'ultima parte della straordinaria carriera di Michael bisogna avere presente la frustrazione causata dalle vicissitudini subìte: i toni delle sue comiche si fanno al tempo stesso più leggeri e più amari. Manca la consapevolezza sociale e i personaggi, un tempo capetti sbruffoni e ridicoli, scendono di qualche gradino per parlare direttamente al pubblico: non solo quello hongkonghese, come nei precedenti lavori, ma anche a quelli del resto del mondo. In un'intervista rilascaita nel 1984 ai Cahiers du cinema2, forse l'unico documento occidentale veramente fondamentale per studiare criticamente Hui, il regista svela alcuni dei suoi segreti. Lamenta anzitutto l'eccessiva contingenza dei suoi lavori, basati su una forza mimica limitata e su una componente verbale troppo specifica per poter oltrepassare i confini nazionali3 e avere successo ovunque. E rivela di voler cambiare il suo stile seguendo la teoria della frequenza, che prevede l'inserimento di battute d'alleggerimento ogni due minuti, per non lasciare fiato allo spettatore, costretto dunque a divertirsi. Nella stesura del film l'autore tiene poi conto di una specie di formula di classificazione matematica delle gag, la cui forza comica viene misurata in lettere, dalla A, ossia la più divertente, alla D, ossia una battuta fiacca. Hui ammette che nei suoi lavori sta lentamente raggiungendo una media tendente al B, e che poche battute del primo tipo tengono da sole in piedi un film. In effetti Teppanyaki, come molti dei suoi successori, è un vivace esempio di tensione comica sopra la media, divertente ma non più così insinuante e profondo, generalista seppure non banale, piùAlways in My Mind nostalgico e con uno sfondo esotico a base di parodie e richiami intertestuali. Gli stessi rimandi che dopo anni di studio delle comiche del muto, di Buster Keaton e Charlie Chaplin, portano a un remake del grande classico A qualcuno piace caldo di Billy Wilder, Happy Din Don, un piacevole omaggio e poco più. La parabola è malinconica e in leggera discesa: si continua a ridere, ma gli sforzi per divertire sono ciclopici in confronto ai risultati. La contrapposizione con Stephen Chiau, che aggiorna il suo stile e prepara la successione - in The Banquet sportivamente i due si affrontano: è un confronto generazionale -, e che dal 1990 sosituisce il genitore ideale al box office, gli è fatale. Neanche la riunione con Sam e Ricky in Front Page e il riuscitissimo Chicken and Duck Talk cambiano la sostanza dei fatti. Hui rallenta i ritmi, si concede sempre meno al grande pubblico e dopo una prova d'orgoglio - il magistrale pezzo di bravura di Always in My Mind di Jacob Cheung, dove passa dalla commedia al dramma con sorprendente disinvoltura (e con qualche rimpianto di chi avrebbe voluto vederlo più spesso giocare con la sua versatilità e il suo talento) - praticamente si fa da parte, lasciando umilmente il posto ai più giovani. Forse un po' troppo presto.

Note:
1. Cfr. The Romantic and the Cynical Mandarins, in Stephen Teo - Hong Kong Cinema - The Extra Dimensions (British Film Publishing, 1997 - pagg. 78-84) e soprattutto Stephen Teo - Li Hanxiang: un'estetica del cinismo, in Marco Müller (a cura di) - Cinemasia Vol. 1 (Marsilio, 1983 - pagg. 177-183).
2. Olivier Assayas, Tony Rains, Charles Tesson - Il fait rire tout l'Asie - Rencontre avec Michael Hui, in Made in Hong Kong (Cahiers du Cinema #360-361, 1984)
3. Anche se in Giappone e nel Sud Est dell'Asia, dove viene ribattezzato Mr. Boo, è famosissimo e molto amato. Nella delusione di Hui incide anche la parentesi americana non felicissima di La corsa più pazza d'America.