Categoria: RIVISTE

Coppia di articoli, pubblicati in occasione dell'omaggio tributato al regista Tsui Hark, da parte del Future Film Festival di Bologna nell'edizione 2004.
Il primo, ad opera di Roberto Silvestri, è ipercinetico, caotico e roboante tanto quanto l'attitudine e l'estetica di Tsui Hark, che il regista stesso snocciola nel lungo stralcio, qui riportato, dell'intervista concessa nel '99 ai Cahiers du Cinema.
Dopodiché vi è il tentativo di condensare in cinque punti essenziali il talento, l'originalità, la peculiarità, la poliedricità e la complessità dell'opera del regista: 1) postmodernità e «stile di ripresa vertiginoso e metafisico (nel senso che sbriciola qualunque legge della fisica euclidea)»; 2) processo creativo e produttivo quasi completamente autonomo; 3) «traghettatore delle intuizioni classico-dinamiche del "cattivo maestro" King Hu nelle cattedrali vertiginose, a flusso turistico permanente, del più zelante dei suoi allievi, John Woo»; 4) «il più estremo, intenso e umoristico dei maestri horror, mélo e d'"azione nera" del mondo»; 5) rispetto nei confronti dell'industria hollywoodiana, pur tenendosene alla larga.
Il secondo articolo vede impegnati Carlo Tagliazucca e Michele Senesi in una dettagliata disamina del meraviglioso, cioè uno degli elementi fondamentali del cinema di Tsui Hark, che egli ha espresso sia mediante uno stile registico assolutamente peculiare sia con effetti speciali, che per anni sono stati in bilico tra l'«evidente finzione» di quelli di tipo tradizionale e artigianale e la ricerca di «una sintesi tra visionarietà orientale e tecnologia occidentale».
In Zu: The Warriors from the Magic Mountain (1983), i cui effetti speciali sono stati realizzati da «tecnici provenienti dal set di Guerre stellari», Tsui Hark fa un uso massiccio del blue screen; per nulla soddisfatto da questo esperimento, fonda con sua moglie la Cinefex Workshop per la realizzazione di effetti speciali in proprio; il blue screen viene quindi abbandonato in favore di complesse elaborazioni di tecniche minori del cinema hongkonghese povero degli anni '60 e '70, il wire work, abbinate efficacemente a «regie iperdinamiche», «montaggio caleidoscopico» ed «ellissi debitrici dello stile di King Hu»: da questo momento il wire work dilaga nel cinema di Hong Kong e marchia indelebilmente pellicole superbe, appartenenti ai generi cinematografici più disparati, come ad esempio le trilogie A Chinese Ghost Story e Swordsman, i primi due film della serie Once Upon a a Time in China> (rispettivamente del 1991 e del 1992) e i «crime-movie» di John Woo.
La Film Workshop, la casa di produzione di Tsui Hark, porterà avanti con successo fino alla metà degli anni '90 «un cinema ibrido, che mescola un concetto di regia moderna a effetti speciali diseguali, senza timore di giungere fuori tempo massimo, forte di una fiducia illimitata nel potere illusionistico del cinema. In fondo nel cinema della Film Workshop, più che i singoli effetti speciali, contano i valori produttivi e gli accorgimenti registici che riescono a celare i limiti di budget ristretto e a magnificare gli elementi in scena». Green Snake (1993) e The Lovers (1994) sono abbastanza esemplificativi di questa fase.
In Love in the Time of Twilight (1995) Tsui Hark si cimenta per la prima volta con gli effetti digitali, usandoli in chiave quasi cartoonistica e dunque «ancora una volta in perfetta continuità con gli antichi effetti disegnati direttamente sulla pellicola», mentre in Time and Tide (2000) «sperimenta una CG più elaborata, che usa in modo grammaticale e invisibile, come nel cinema americano, per risparmiare sulle esplosioni e rendere più fluidi certi passaggi».
Ma «inaspettatamente, il successivo The Legend of Zu (2001) cambia nuovamente direzione, lontano dall'appiattimento realistico all'americana, in favore di un immaginario completamente digitalizzato in cui la computer grafica cancella completamente il set e domina incontrastata un universo astratto e pittorico, più vicino all'animazione che al cinema, in cui anche gli attori, soli davanti a un ritrovato "blue screen", sono pure figure virtuali plasmabili facilmente in post-produzione. La coreografia classica e la figura dell'attore marziale si dissolvono in favore di una regia finalmente onnipotente, padrona di ogni minimo elemento in scena».

Numero: 3 / VII
Periodo: 17 Gennaio 2004
Autori: Roberto Silvestri, Michele Senesi, Carlo Tagliazucca
Lingua: Italiano
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