The DetectiveOxide e Danny Pang, fratelli nella vita e uniti anche dalla professione, in coppia, di registi, da quasi dieci anni lavorano tra Thailandia e Hong Kong riscuotendo successo. I gemelli sono una macchina da marketing: dopo i fasti di The Eye (2002), con due sequel, il secondo dei quali molto sopra le righe – The Eye 10, 2005, caustico già a partire dal titolo –, quando il loro appeal sembrava cominciare ad appannarsi, hanno saputo reinventarsi lontano dai territori abituali. Fino all’inatteso, recentissimo, sbarco ad Hollywood. Come abili giocatore di poker non hanno ancora svelato tutte le carte in mano loro, aspettando di volta in volta il momento giusto per calare l’asso vincente, dal nulla, quando meno te l’aspetti.

Capaci di vendere i propri prodotti con competenza i Pang si sono autoimposti come alfieri di un cinema panasiatico che, strizzando l’occhio all’occidente, si pone come vera e propria alternativa, a suo modo globalizzata, al monopolio cinematografico attuale. In tempi di vacche magre e di incassi risicati il loro piano sembrava una controffensiva intelligente. Oggi, alla luce di sviluppi autoctoni che portano il cinema Forest of Deathorientale a chiudersi sempre di più su se stesso, l’idea di base mostra qualche buco di sceneggiatura. Il pubblico, che ha presto smesso di subire le lusinghe delle chimere cinesi e ai blockbuster orientali strombazzati in pompa magna è tornato a preferire le piccole produzioni locali, vuole vedere, hic et nunc, opere in cui potersi rispecchiare. Il riflesso della propria identità nazionale è, da sempre, un fattore fondamentale di immedesimazione autarchica per un cinema schietto e popolare come quello di Hong Kong, che se ne è sempre fatto strenuo portavoce.
Ab-normal Beauty (2004, del solo Oxide) tiene conto di queste istanze e spinge il pedale del freno sugli effetti speciali, per rispecchiare un ecosistema interno dove la follia umana è, come in tanti Cat. III vietati ai minori negli anni ’80, una bandiera ben riconoscibile. Insieme a Diary (2006, sempre di Oxide) dimostra con intelligenza come l'attaccamento alle radici insite nell’immaginario collettivo sia una scelta vincente. Pellicole minori, stando ai costi di produzione e agli sforzi economici messi in campo, eppure sufficientemente credibili e coerenti per poter intrattenere senza particolari ambizioni. Un buon terreno di caccia per un talento visivo indiscutibile, che si appoggia a fotografia e montaggio sempre di altissimo livello. Senza esagerare. Gli eccessi stilistici della coppia, già conscia di tutte le proprie potenzialità ai tempi dell’esordio Bangkok Dangerous (1999), si sfumano in un contesto di basso rango, in un recinto imposto da un mercato non ancora in grado di reggere da solo le sorti dei titoli meno blasonati. Anche in termini economici è un discorso da valorizzare: a fronte di spese poco importanti il box office ripaga gli outsider le cui aspettative incorrono meno nel rischio del flop.
Esclusa una deludente incursione nel noir, con Leave Me Alone (2004, diretto da Danny), la tecnica visionaria dei Pang Bros si applica principalmente ad un unico genere, l’horror. Nonostante le (false) promesse di non ricadere sul medesimo sentiero inaugurato con The Eye, ben accolto, a sorpresa, anche dal botteghino italiano, i due si sono prodigati per smentirsi agli occhi del pubblico. Poco preoccupati che la loro immagine perdesse prestigio ideologico: i Pang, va detto, sono astuti. Se solo non agognassero il trono di promotori del cinema orientale nel mondo, né al titolo di auteur, potrebbero lavorare con esiti positivi come «operai del cinema», e costruirsi una solida carriera garantita loro, a vita, dalla padronanza invidiabile dei mezzi tecnici. E invece tuonano i propositi, le intenzioni intellettuali, i proclami autoelogiativi, che ne mettono in luce, troppo scopertamente, snobismo e scarsa considerazione dell’intelligenza del pubblico. Insieme ad una miopia congenita su come rapportarsi, a conti fatti, con i loro risultati.
Re-cycle (2006) e Forest of Death (2006, di Danny Pang) sono dei fantasy dove la New Age e l’orrore della classica tradizione asiatica, in primis quella più redditizia che proviene dal Giappone, si fondono in maniera diseguale. Nel primo una scrittrice tormentata dai soliti Diaryfantasmi si ritrova in un mondo postatomico parallelo; nel secondo il vero protagonista è un misterioso bosco, dove i giovani vanno chissà perché a suicidarsi. Danny e Oxide stirano la materia a loro disposizione a dismisura, e trattano una sensazione, ideale nel breve periodo, con insistenza, come se si trattasse di un’onda lunga autoriale su cui continuare a ritornare. La loro incapacità di staccarsi da stilemi già approvati dall’audience parla chiaro circa la voglia di rischiare ormai pressoché nulla. The Messengers (2007), prodotto da Sam Raimi, con i suoi continui richiami a The Grudge (2000, di Shimizu Takashi), ne è un perfetto esempio.
Facendo la spola tra oriente e occidente, come Tsui Hark o Ringo Lam un decennio fa, i fratelli Pang sondano incessantemente il mercato, sia che propongano uno sciatto action thai (The Tesseract, 2003, di Oxide Pang), sia che si rilancino con un thriller nero e curioso (The Detective, 2007, anch'esso di Oxide), sia che rinuncino definitivamente al giuramento di rinnegare la ghost story, con il recentissimo mélo gotico In Love with the Dead (2007, di Danny Pang). Sarà Hollywood, che ne ha apprezzato l’esordio a basso costo, a ridimensionarne le aspirazioni di onnipotenza? Intanto i gemelli hanno messo in cantiere il remake americano del loro debutto, allora pluripremiato ai festival – e a posteriori si può pensare solo alle conseguenze deleterie, in termini di ego, di un esordio col botto così carico di promesse. Dopo Raimi è il turno di Nicholas Cage, che paga di tasca sua il ruolo da protagonista nel nuovo Bangkok Dangerous (uscirà nel 2008) e mette sotto contratto due abili esecutori. Con la dovuta umiltà diventeranno dei veterani di talento.

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