Big Brother ChengDopo il grande successo di The Teahouse, il regista Kuei Chih-hung e il protagonista Chen Kuan Tai tornano sul luogo del delitto, più arcigni che mai, decisi a chiudere tutti i conti in sospeso e a bissare ai botteghini, dove necessario inasprendo i toni e alzando il tasso di violenza. Il primo film si era chiuso su un anti-eroe provato, quasi sconfitto e privato della sua inesauribile grinta: qui il ristoratore Cheng torna a sorpresa ad essere un paladino dei poveri, al tempo stesso Robin Hood, padrino, giustiziere, saggio consigliere, imprenditore, assistente sociale, marito affettuoso e padre (putativo) di un'intera comunità. Meno sociale e più melodrammatico - compresa qualche ironica parodia di miti del presente: si veda ad esempio la crudele presa in giro del personaggio truffaldino portato in auge da Sam Hui -, Big Brother Cheng azzarda mille e più ipotesi di studio, mantenendo il crescendo, lo spirito razionale e l'accumulazione di casi standard (in questo ne approfitta per riprendere discorsi e personaggi lasciati in sospeso nel prototipo, da cui non può prescindere) tipici del documentario applicato al realismo cinematografico.
La pellicola palesa subito debiti nei confronti del noir americano coevo - Siegel per gli inseguimenti, Arthur Penn per l'esibizione di sangue in primo piano, Aldrich per il cinismo di fondo -, in qualche misura del poliziottesco nostrano, soprattutto per l'(ab)uso di violenza applicata a temi adulti (il rapporto critico tra coscienza collettiva e crimini iperbolicamente sempre più riprovevoli: furti, stupri, omicidi), e degli yakuza eiga giapponesi (ma è meno pessimista) per la fotografia della malavita e dei suoi codici interni. Big Brother Cheng si dimostra incredibilmente avanti nel rappresentare il degrado urbano, contrappeso inevitabile sulla bilancia del rinnovamento socio-culturale e del boom economico. Fanno capolino per la prima volta in maniera organica le triadi - i vertici potenti e i ragazzini carne da macello in basso - come entità minacciosa in contrapposizione - quando non addirittura in vantaggio - a polizia e giustizia (obsoleta: il discorso prolungato su permissivismo e pena di morte; il finale riparatore con la rivelazione dell'undercover). Regia non sempre all'altezza, che sfrutta meno del previsto le doti marziali del divo Chen e ne moralizza populisticamente fisico e carisma. Spesso è il montaggio, in società con la colonna sonora coinvolgente e la fotografia brillante, che salva le situazioni a rischio di banalizzazione: esemplare in tal senso una splendida sequenza in cui l'alternanza tra un discorso politico ottimista, ma falso, e un'aggressione sessuale che culmina con un disperato suicidio ridicolizza il divario tra opposti inconciliabili.

Hong Kong, 1975
Regia: Kuei Chih-hung
Soggetto: Chiang Chih-nan
Sceneggiatura: Sze-to On
Cast: Chen Kuan Tai, Karen Yip, Tung Lam, Wai Wang, Chung Chan Chi

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