Bullet in the HeadSotto molti aspetti Bullet in the Head è approfondimento e sintesi dell'epica wooiana. Senza dubbio una delle sue opere più sentite e personali, in cui, per la prima volta senza l'appoggio economico dell'amico-e-produttore Tsui Hark, il regista può espletare il suo impellente bisogno lirico-narrativo. Sempre pistole, sempre amici, ma stavolta cambiano le ambizioni, maggiormente politiche: Woo si schiera appertamente là dove la sua coscienza di uomo di fede lo obbliga a stare, contro la guerra e le atrocità che da questa conseguono. La metamorfosi dei temi cari - amicizia, eroismo, catarsi e vendetta - è dunque frutto di una radicalizzazione, di una contraddizione di fondo tra pace e violenza, tra fede e giustizia (ossia la giusta punizione per il peccato commesso).
Andare oltre significa però non accontentarsi della rispostina facile, della retorica spicciola né di una morale preconfezionata. L'epopea di tre loser in trasferta da Hong Kong (la cui situazione politica - i moti del 1969 e la paura per l'handover prossimo venturo - si mescola senza buchi di sceneggiatura al vicino massacro di piazza Tienanmen), amici per la pelle finché l'egoismo e la sete di potere (nello specifico una cassa piena d'oro, proprio come nella tradizione avventurosa delle storie di pirati) non prevalgono. Demolendo un melodramma lancinante di pulsioni forti e sentimenti repressi: è il trionfo del sangue, inteso come legame (ideale) e come scaturigine del dolore e della lotta cruenta tra bene e male. Dei tre personaggi principali uno finirà esule in patria, uno ferito irreversibilmente, il terzo corrotto senza possibilità di redenzione. Ovviamente la tensione cresce sulla pelle dei protagonisti, che interagiscono a creare una situazione insostenibile, risolta alla fine solo in un confronto diretto da cui non è possibile tornare indietro indenni.
Se tematicamente è la summa generis (e contemporaneamente il segnale della fine, insieme all'altrettanto importante A Better Tomorrow III di Tsui Hark), Bullet in the Head è una lezione programmatica di stile e tecnica. La teoria dell'azione tipica di Woo - carrellate veloci, ralenti, fotostop, la colonna sonora che introduce ed esalta i momenti di maggior pathos - si sposa ad una narrazione volutamente frammentata - non solo dal montaggio alternato e parallelo ma anche da una narrazione stratificata -, che permette ad una pellicola così lunga e complessa un respiro ampio e coinvolgente. A un substrato multisfaccettato - tante location, tanti caratteri, con un occhio di riguardo al fascino micidiale e canagliesco di Simon Yam - si sovrappone una resa interpretativa di primissima statura. L'intensità e l'elettricità di Jacky Cheung, di Tony Leung e di Waise Lee sono davvero merce rara.
Un capolavoro è tale anche se provvisto di un finale forse troppo esplicito (il duello con le macchine tra le fiamme stona in eccesso) e barocco? Eppure la stessa parsimonia dello svolgimento (tematica, non estetica: il film è una festa di stunt, sangue e sparatorie), un'economia visivamente appagante avrebbe reso l'opera, assolutamente imprescindibile, un monumento immortale a monito di quei valori assoluti - libertà, uguaglianza, fratellanza - alla base di qualsiasi messaggio universale.

Hong Kong, 1990
Regia: John Woo
Soggetto / Sceneggiatura: John Woo, Patrick Leung, Janet Chin
Cast: Tony Leung Chiu-wai, Jacky Cheung, Waise Lee, Simon Yam, Yolinda Yan

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