ButterflyFlavia ha una vita confortante: insegna in un istituto femminile e ha un marito che la supporta, la stima e si prende cura con gioia di loro figlia, appena nata. Ma quando Flavia incontra Yip, una cantante scombinata e libera, i suoi desideri nascosti tornano a confonderla. Ai tempi della scuola Flavia aveva infatti avuto una lunga relazione con una compagna di classe, dalla quale era poi fuggita per seguire i diktat di una madre disturbata e possessiva. L'attrazione per Yip è seria, o è solo il riaffiorare di qualcosa di troppo a lungo nascosto? E cosa è cambiato in questi lunghi anni di "normalità"?
Tratto da un romanzo breve di Chen Xue, The Mark of a Butterfly, l'ultimo film di Mak Yan Yan, passato sotto silenzio alla sessantunesima mostra di Venezia, è uno spaccato maturo sull'impercettibile mutevolezza dei sentimenti, sia per i mezzi dispiegati (inserti 8mm sgranati, spezzoni privi di sonoro, montaggio alternato tra presente e passato, narrazione frantumata) che per la consapevolezza con cui è trattato il tema. La regista, diplomata alla Hong Kong Academy for Performing Arts, si era fatta notare con il piccolo film indipendente Ge Ge, del 2001, su un cinese alla ricerca del fratello maggiore - tra documentario e narrazione. Con Butterfly Mak porta a compimento un film al contempo stratificato e molto semplice, in alcuni momenti forse troppo esposto per mettersi al completo riparo da facili critiche. A un primo livello di fruizione è persino scontato nel gioco di ammiccamenti omoerotici che inscena - tra pruderie adolescenziali, biancheria intima e baci saffici: ma Mak Yan Yan non eccede, non scade in voyeurismi stupidi, e grazie a un uso equilibrato degli stacchi si mantiene su un terreno fragile, eppure molto dolce, diretto. A un secondo livello appare come una storia d'amore contrastata, o meglio una narrazione sulla libertà dei sentimenti, le difficoltà implicite in qualsiasi rapporto amoroso/emotivo, e il riemergere, dopo anni, di ciò che si voleva tenere nascosto, anche ai propri occhi. Da questo punto di vista il risultato è alterno, pur rimanendo personale e confortante. La storia rimane sorniona, superficiale, persino occultamente banale; ma poi al suo interno contiene dei momenti riuscitissimi, che la rendono straniante nella spietata verosimiglianza che riescono a raccontare. Il parlare al bar, mentre i ricordi vagano e gli sguardi si incrociano; la lite sussurrata tra Eric Kot e Josie Ho, tesisissimi davanti al frigo, con quelle parole sbocconcellate e i nervi che saltano, in un momento tanto comprensibile da essere infine doloroso; il bacio improvviso e rubato da Josie Ho a Tian Yuan, quando lei la invita a casa a pranzo, in cui lo stupore sembra fermare il tempo. Ciononostante è il terzo possibile livello di lettura che consente a Butterfly di discostarsi definitivamente dall'apologetica sulla riscoperta dei buoni (e sofferti) sentimenti omosessuali. Perché il film di Mak Yan Yan è un film completamente e consapevolmente politico: non tanto, o non solo, sulla tolleranza e la rottura del tabù dell'omosessualità (tema pur presente, si veda il didascalico inserto della fuga delle due alunne innamorate), quanto, più in generale, sullo stato civile, emotivo e personale della Cina e dei cinesi tutti. I flashback sulla prima storia d'amore del personaggio di Josie Ho si svolgono non casualmente ai tempi di Tienanmen, e da questo punto di vista il film è apertamente una metafora. Tienanmen ha significato la perdita delle illusioni in un futuro di cambiamento, la rottura di un percorso autoalimentato di modificazione sociale. La repressione ha significato la fine del sogno immediato. Così come delle due ragazze una nega la propria sessualità, dedicandosi alla costruzione di una normalità familiare illusoria, e l'altra si astrae dal mondo ritirandosi in un monastero buddista, anche i cinesi, colti impreparati, non hanno potuto altro che ritirarsi dalla piazza, intesa in senso politico, come agorà. Gli anni seguenti ai fatti di Tienanmen sono l'apparenza di una normalità tradizionale restaurata. Ma tra le braci covano nuovi impulsi, che si trasformano nella continuazione di ciò che era stato interrotto: un coming out doloroso e necessario, perché non significa solo il mettersi in gioco, ma il dichiarare apertamente l'ipocrisia di qualsiasi altra alternativa pacificatrice (qui il matrimonio, là il silenzio e l'apatia). Non c'è dubbio si tratti di una lettura ottimista, forse troppo sicura dell'inevitabilità del cambiamento, ma rimane bella, perché non urlata, non sbandierata, mascherata sotto le coltri di una classica pellicola di formazione a tema "scandaloso". Dunque ancor più dirompente.
Di rilievo le prove attoriali, da Josie Ho, sempre intensa in ruoli non semplici, a un Eric Kot in stato di grazia, assolutamente magnetico nonostante il tempo esiguo in scena, fino all'ancora acerba Tian Yuan, rocker pechinese che riesce a padroneggiare sguardi e silenzi. A parte qualche sbavatura, unico difetto è la lunghezza: oltre due ore appaiono troppe per il semplice meccanismo della storia (ma il montaggio originale era di quasi tre ore, pare). Per il resto da guardare con attenzione - non necessariamente morbosa.

Hong Kong, 2004
Regia: Mak Yan Yan
Soggetto / Sceneggiatura: Mak Yan Yan
Cast: Josie Ho, Tian Yuan, Erik Kot, Isabel Chan, Joman Chiang

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