Detective Dee

Cina, 690 d.C. La reggente Wu si appresta ad essere incoronata imperatrice (prima donna nella storia cinese), ma i molti nemici e cospiratori giocano le loro ultime carte per impedirlo. Nel frattempo la costruzione di un gigantesco Buddha in onore della reggente viene rallentata da alcune morti misteriose per autocombustione; sul caso viene chiamato a indagare il detective ribelle Di Renje, già esiliato dalla stessa reggente.

Il razionale e la superstizione: il primo, principale alleato di chi non accetta di uniformarsi e di rinunciare a ciò che indica il proprio intelletto, contro la seconda, brandita come una clava dal potere per mantenere le masse oppresse, ignoranti e soprattutto impaurite. Cominciava così, nel lontano 1979 di The Butterfly Murders, la carriera cinematografica di Tsui Hark, con un whodunit misto a wu xia nerissimo e fuori dagli schemi, che lasciava intendere di cosa fosse capace la new wave di Hong Kong. Più di trent'anni dopo, quando nel frattempo il regista ha reinventato il cinema di Hong Kong, distruggendo e ricostruendo generi e stili, ed è man mano scivolato verso quello che pareva un inesorabile viale del tramonto, ecco che Tsui riparte da lì, dal principio.

In un terzo millennio che significa CGI e capitali cinesi, dovere di impressionare un pubblico con esigenze di spettacolo tutte sue, ma senza tradire la propria poetica. Detective Dee è quel romanzo d'avventura e di epos che nessuno, non solo Tsui, sembrava più in grado di realizzare. Ingredienti apparentemente semplici ma sempre meno presenti nei piatti insipidi che l'industria dell'entertainment ci serve quotidianamente, tra un supereroe e un 3D movie: divertimento, azione, qualche risata, suspense e ancora divertimento. Proprio come ai bei tempi in cui Indiana Jones faceva schioccare la frusta o Wong Fei-hung saltava da un vascello inglese all'altro.

L'idea di ambientare nella più classica delle ambientazioni fantasy-wuxia - coreografate magistralmente dal buon vecchio Sammo - un vero e proprio whodunit permette a Tsui di allestire un curioso pantheon di personaggi degno dei fasti di Zu, Warriors of the Magic Mountain, insistendo sull'elemento del trasformismo, topos tradizionalmente caro all'autore (Peking Opera Blues, Swordsman 2). Trasformismo dei sessi e delle identità, in un rimescolamento delle carte, un bluff ammaliante che riporta lo spettatore al suo ruolo originario di ignaro osservatore di una caleidoscopica esibizione da lanterna magica. A chiudere il cerchio un cast stratosferico, guidato da un Andy Lau che pare aver sorseggiato l'elisir di eterna giovinezza e da una sempre più sorprendente Li Bingbing (dopo Gallants, altro cameo suggestivo di Teddy Robin Kwan) in un'opera che ci riconsegna in forma splendida – ed è la più lieta sorpresa dell'anno - la guida spirituale degli amanti del cinema di Hong Kong, che si temeva irrimediabilmente smarrita.

 

Cina/Hong Kong, 2010
Regia: Tsui Hark.
Soggetto/Sceneggiatura: Chen Kuo-Fu, Chang Chia-Lu.
Action director: Sammo Hung
Cast: Andy Lau, Carina Lau, Li Bingbing, Tony Leung Ka Fai, Chao Deng.

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