Love and the CityJeff Lau è certamente più noto per la sua folle vena schizofrenica, esplicata in tante commedie di successo, con e senza Stephen Chiau, ma anche nei suoi tentativi più controllati ha ottenuto ottimi risultati. Si prenda Love and the City, una pellicola poco considerata1, eppure è uno dei migliori mélo degli anni novanta. Il dramma e l'azione si uniscono per dare vita a una storia emozionante e universale, sostanzialmente priva di difetti, dove le emozioni sono vive e libere. Leon Lai è Wu, un criminale di mezza tacca che regolarmente entra ed esce di prigione. Il rapporto con il padre è fatto di incomprensioni e silenzi, e i due uomini preferiscono evitare ogni comunicazione piuttosto che cercare con pazienza di capirsi a vicenda. In ogni noir che si rispetti c'è una donna e qui ha le fattezze di JoJo, che irrompe prepotentemente sulla scena, e pur non essendo fatale, Wu Chien-lien, pura ma fidanzata con un pezzo grosso del crimine, porta con sé tanti guai per lo schivo protagonista. Guai ingigantiti dal fato2 e dalla sfortuna di trovarsi, come sempre, nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Love and the City è una lezione di cinema sotto diversi punti di vista. La sceneggiatura è ricca di svolte e cambiamenti, ma il ricorso al colpo di scena non compromette la compattezza della narrazione. Lo stile è sempre elegante, sa adeguarsi alle esigenze sceniche (la fotografia dell'esperto Arthur Wong in grado di svelare la città e la sua anima ombrosa) e si mimetizza quando è necessario lasciare spazio agli altri fattori. Con poche inquadrature Lau rivela l'inesplicabile, facendo di un'apparente semplicità la sua arma principale. In realtà la messa in scena è sontuosa e complicata, con un uso forte della macchina da presa, che si muove di pari passo con la storia. Basti pensare all'epilogo ritardato, ancora caratterizzato da una serie di incomprensioni e di frasi non dette, che Lau risolve al momento giusto con una serie di campi e controcampi fino alla dissolvenza finale, ovviamente in nero. Il mix di generi (poliziesco, noir, mélo, dramma generazionale) è una costante del cinema di Hong Kong, ma qui viene eseguito con cura maniacale da uno dei suoi massimi cultori. La recitazione è di primissimo livello: conscio dei limiti del suo eroe, Lau ne limita dialoghi e espressività, costringendo il personaggio ad un mutismo testardo che ne maschera le possibili imperfezioni. Esercita poi una pressione del tutto differente su Wu Chien-lien, lasciando trasparire la sua sensualità elegante e uno spleen malinconico che stride con la bellezza solare della donna. A vigilare, inconsciamente, sul figlio, l'anziano genitore (Ng Man Tat, eccellente anche in un ruolo drammatico), in attesa di una reazione impossibile, di un gesto conciliatorio, di uno sguardo comprensivo. Il rapporto tra padre e figlio è tema ricorrente nel melodramma cantonese e qui viene aggiornato con grazia e intensità alla contemporaneità dei giorni nostri.

Note:
1. L'unico occidentale che ne abbia parlato in termini positivi è stato infatti Alberto Pezzotta. Il resto della critica ha nel migliore dei casi ignorato il film, con i picchi di Fonoroff, Charles e Weisser che addirittura bollano il film come «privo di consistenza».
2. I continui riferimenti al fato, seppure indovinati, derivano dalla campagna pubblicitaria di una nota compagnia di telefonia. Protagonista dei suddetti spot era ovviamente Leon Lai. La massiccia presenza dei pager (cercapersone), peraltro sapientemente mimetizzati dalla sceneggiatura in un intreccio rosa che a un certo punto li elegge a comprimari chiave, è dovuta proprio a questa sponsorizzazione occulta.

Hong Kong, 1994
Regia: Jeff Lau
Soggetto / Sceneggiatura: Kay On
Cast: Leon Lai, Wu Chien-lien, Ng Man Tat, Liz Kong, Miu Gam Fung

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