Sex and ZenA suo modo Sex and Zen è un caposaldo. Di un meta-genere, il Cat. III, riconosciuto solo tre anni prima con l'introduzione del rating censorio e della divisione in fasce per proteggere il pubblico dalle immagini sullo schermo. Insieme a Erotic Ghost Story, dell'anno prima, la pellicola di Michael Mak lancia per la prima volta il trend del fregio della terza categoria come lasciapassare per la curiosità del grande pubblico. Il budget è di alto livello e non per niente produce (in collaborazione con la vecchia volpe Johnny Mak, fratello del regista) e distribuisce una major potente e affermata quale la Golden Harvest. Nessuna intenzione di sdoganare un genere nelle intenzioni degli artefici, solo l'ennesima esplicazione dell'innato desiderio hongkonghese di sfruttare il momento giusto per guadagnare quanto più denaro possibile. Operazione perfettamente riuscita: la pellicola ha fatto il giro del mondo, Italia compresa, offerta al pubblico con la promessa di lussuria e sesso a oltranza.
Remake di Yu Pui Tsuen II (1987, regia di Ho Fan su sceneggiatura di Manfred Wong) il film è vagamente ispirato - nonostante i rumorosi strilli di tromba l'attinenza con il referente letterario è poca - al classico erotico del poeta Li Yu, Il tappeto da preghiera di carne (1634). Un riferimento di comodo, anche se certe scelte etiche ed estetiche non paiono del tutto forzate (il libertinaggio come cura salutare per il corpo1 e per lo spirito: devozione taoista e critica pura al confucianesimo). Soprattutto quando a supportarle ci sono l'ironia e la mancanza di volgarità, in assenza delle quali si potrebbe tranquillamente parlare di oltraggio (al pudore). Non lasciatevi fuorviare dal titolo, c'è più sesso che zen, ma è comunque poca roba2. Lo spirito goliardico si concentra sulla sopravalutazione della carne (i seni di Amy Yip, i falli sproporzionati, le sevizie sadomaso) e sul gusto paradossale per l'inguardabile (spiato di nascosto e filtrato attraverso barriere minime: i veli, i buchi della serratura, le intercapedini).
Il senso del grottesco è forte, lo stesso soggetto - un uomo vuole possedere tutte le donne che gli capitano a tiro ma non è ben fornito dalla natura e decide quindi di farsi trapiantare il pene di un cavallo - ne è pesantemente intriso: a partire dall'operazione chirurgica per ovviare alla deficienza (condotta con perizia dal dottore interpretato da Kent Cheng) ai primi riscontri del nuovo arrivato e della sua potenza. Si apprezzano le bellissime donne, svestite e non (Amy Yip, paladina del soft-core, è palesemente controfigurata nelle scene più forti; molto più disponibili le specialiste Rena Murakami e Isabelle Chow), ma si ride per le battute, per le trovate surreali (per noi italiani un gioioso ritorno a certi decamerotici di vent'anni fa) e per l'apparente contrasto della messa in scena elegante e della fotografia svolazzante. Alla fine rimane un prodotto spudoratamente commerciale, piacevole, con qualche soluzione godibile (gli amplessi dell'autoritario Tsui Kam-kong3, il ruolo di Lo Lieh, il finale con morale perdente), costruito furbescamente e meno pruriginoso del lecito. Su una recitazione inesistente (a parte alcuni cammeo e qualche momento ispirato di Lawrence Ng) è inutile soffermarsi, in questo caso sono i corpi dei protagonisti a scrivere - letteralmente e fisicamente - la storia.

Note:
1. «In tal modo si finisce per considerare la donna come un nemico, che nell'impradonirsi dell'essenza dell'uomo, cerca di carpirgli i segreti per ottenere l'immortalità. [...] Un'alternativa, sebbene romanzata, a questa lotta [...] è stata immaginata da Li Yu [...], il quale narra di una tecnica peculiare, considerata una delle più alte raffinatezze dell'arte erotica e praticata solo da alcune cortigiane particolarmente esperte in base alla quale la donna sacrifica il proprio succo a favore dell'uomo. Quest'ultimo avrebbe così tratto effetti a dir poco portentosi da questo assorbimento della sostanza yin: il suo aspetto esteriore sarebbe apparso come ringiovanito, le sue energie sarebbero state rinvigorite, i suoi spiriti vitali rafforzati e la sua vita prolungata». Marina Miranda - L'eros nella cultura cinese, in Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese # 59 (1995).
2. «Sex and Zen è meno coraggioso di quanto voglia far credere. E' un prodotto della moralità della classe media di Hong Kong, e rimarrà come esempio di quello che era considerato proibito dagli allarmismi del ventesimo secolo». Paul Fonoroff - At the Hong Kong Movies (Odyssey Publications, 1998 - pagg. 189-190).
3. «Nell'unica scena divertente di Sex and Zen il nerboruto Tsui Kam-kong branca Amy Yip mentre fa il bagno in una tinozza, la possiede restando sott'acqua e, preso dalla furia del momento va avanti instancabile, dimenticandosi anche di respirare». Alberto Pezzotta - Tutto il cinema di Hong Kong (Baldini & Castoldi, 1999).

Hong Kong, 1991
Regia: Michael Mak
Soggetto / Sceneggiatura: Lee Yin Git
Cast: Lawrence Ng, Tsui Kam-kong, Amy Yip, Lo Lieh, Kent Cheng

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