Tri-StarTre personaggi si scontrano continuamente. Un prete ansioso di salvare una vivace prostituta capitata per errore nel suo confessionale; la prostituta in questione, braccata da uno strozzino; un poliziotto lercio e caparbio, sulle tracce di un pericoloso gangster legato in qualche modo ai due personaggi succitati. Intorno a loro gira un mondo colorato - dalla fotografia mozzafiato di Christopher Doyle e Arthur Wong - dove meretrici, criminali e forze dell'ordine giocano la loro partita a scacchi, o meglio a mahjong, seguendo i propri istinti e una serie di equivoci a volte innocenti altre volte pericolosi. Proprio come in All the Wrong Clues (...for the Right Solution), citato più volte. Al di là di semplificazioni e gag stupide - per lo più basate su equivoci di natura sessuale: esilarante la scena in cui Lau Ching-wan e Sunny Chan ascoltano di nascosto, tramite micro-spia, le quattro prostitute in quella che credono sia una prestazione di lavoro -, Tri-Star è un'opera complessa e stratificata su cui occorre riflettere per bene. Benché non sia il capolavoro che avrebbe dovuto essere a giudicare dai primi minuti, è la sintesi tattica di un modo di fare cinema, in ritardo di almeno dieci anni - rispetto alle commedie della Cinema City, quasi defunta - ma sempre sintomatico delle preoccupazioni di un regista oramai pronto ad alzare bandiera bianca. Una dissacrazione pre-post-moderna, che al tempo stesso è sferzante e nostalgica, irriverente, squilibrata e sottile. Il trinomio del titolo - ma quello cinese è più insinuante, e tira in ballo il solito gioco d'azzardo - consuma il tempo a propria disposizione correndo ovunque sia necessario ma, in fine dei conti, sprecandone gran parte. Non sono sensazioni gratuite, ma omaggi ricorrenti ad un mondo proprio esplorato quasi completamente e in attesa di una revisione critico-programmatica: i continui riferimenti agli orologi (rotti o malfunzionanti); agli aerei che volano via e atterrano rumorosamente (e ci si aspetta da un momento all'altro di vederne uno schiantarsi, come in The Wicked City); a Anita Yuen musa punk, santa e puttana (come in The Chinese Feast); a Leslie Cheung bello da togliere il fiato ma impossibile (e in misura minore a Shing Fui On che mantiene l'imbarazzante chioma bionda da gangster ma indossa abiti talari); al karaoke e alla musica come sfogo programmatico; alla religione occidentale, forza strana e ignota, ma potente (e infatti tiene testa alle triadi con cui ha il coraggio di negoziare alla pari); alle allegoriche parodie (il risveglio delle donne che prende in giro i film di vampiri); al sesso come business e alle sue intrattenitrici. E' per forza di cose un film irrisolto e compromesso, ricco di contraddizioni, di speculari rivalità e di un'inutile abbondanza di materia; ma ci si legge dentro lo spirito anarchico di Tsui Hark, che prima di sprecare il suo genio in un finale - di carriera? - deludente piazza zampate da leone e momenti di puro genio.

Hong Kong, 1996
Regia: Tsui Hark
Soggetto / Sceneggiatura: Tsui Hark, Philip Cheng, Tiu Wan
Cast: Leslie Cheung, Anita Yuen, Lau Ching-wan, Sunny Chan, Alvina Kong

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