Categoria: FILM

20462046 non è un remake, non è un sequel, non è neanche la continuazione immaginaria del lavoro di un regista, Wong Kar-wai, ormai espressamente votato al terreno del mélo passionale e appassionato. Eppure le somiglianze con precedenti lavori del regista, Days of Being Wild e In the Mood for Love - di quest'ultimo la pellicola costituisce semmai una negazione carnale e complementare -, sono evidenti, anche se di strettamente uguale rimangono soltanto i nomi (ma i personaggi in questione sono poi l'opposto viscerale degli archetipi). Chow Mo-wan, scrittore, ex giornalista, trascorre languide giornate in una camera d'hotel scrivendo e torride serate corteggiando donne, cercando di conoscerle senza impegnarsi. Nel suo cuore c'è sempre una Su Li-zhen da ricordare, stavolta in una Singapore ombrosa e disperata, dove il gioco (d'azzardo, e del destino) lo ha portato a nascondersi. Prima di lei (e del suo alter ego di un'altra pellicola) c'erano una Lulu dal fato tragico, una splendida Bai Ling, vicina di camera e di sentimenti, quindi l'inquieta Wang Jing Wen, figlia dell'albergatore, innamorata invano di un giapponese che solo nel futuro potrà confidarle il proprio amore.
L'inizio shock, in grafica digitale e esasperazioni cromatiche - Christopher Doyle al cubo, che lavora a sei mani -, fa presagire subito che qualcosa è cambiato, nella forma, nella misura, nelle stilizzazioni di situazioni tipo portate all'eccesso, prima sensuale poi romantico. 2046 è un dramma erotico, pomposo, ieratico ma nonostante tutte le sue fisiche imperfezioni aggraziato e trascinante. La voce over culla lo spettatore in un limbo di fragorosa risonanza, in un domani impossibile, quasi politico, che come nel caso del primo handover - o almeno si spera - non porta i temuti grandi cambiamenti ma lascia che la pace immanente delle cose continui a imperare. E' l'ego interiore dell'uomo - anch'egli un prototipo, volutamente stereotipato e di maniera: un Clark Gable cinese troppo sicuro di sé, latin lover dal fascino triste e immalinconito -, che riflette sui suoi errori, ad essere squassato da lampi di luce, di vita(lità), di ossessione amorosa.
La frammentazione e l'istintiva sensazione di sfuggevolezza sono pertanto l'unico possibile modo di narrare mille e più storie che si intrecciano, che si richiamano, ricordi e fantasie, vita reale, passato e avvenire, in un unicum spazio-temporale (onirico?) privo di definizione e contorni netti. Di rimando l'imprecisione e l'irrazionalità sono un pregio e non un difetto, anche se la lucida, compassata immanenza di In the Mood for Love ci aveva abituati troppo bene. Wong continua a ripercorrere strade musicali perdute, riscopre l'opera (Casta Diva), si affida a Truffaut, a un dolcissimo tema ricorrente di Shigeru Umebayashi e Peer Raben, ibridando l'opera di innate sensazioni universali (Cina, Francia, Singapore, Taiwan, Giappone, Hong Kong). Contemporaneamente macina chilometri di pellicola grazie alla direzione artistica di Alfred Yau e al montaggio del solito William Chang. E si conferma maestro nel dirigere le attrici (ma non solo: si vedano l'autocitazione nella figura ridicola di Ping e il saggio paternalismo del signor Wang tradito dalle due figlie), a partire da un veloce cammeo della musa Maggie Cheung e a una partecipazione amichevole di Gong Li, fino ai vertici di recitazione di una splendida Zhang Ziyi, mai così brava finora, e di Carina Lau, diva poco casta, corpo peccaminoso di un reato morale che, anche se ripetuto all'infinito, è una colpa unicamente imputabile alla stupidità umana, maschile o femminile che sia.

Hong Kong, Cina, Francia, Germania, 2004
Regia: Wong Kar-wai
Soggetto / Sceneggiatura: Wong Kar-wai
Cast: Tony Leung Chiu-wai, Zhang Ziyi, Faye Wong, Kimura Takuya, Carina Lau