Categoria: FILM

Confession Of Pain

- Perché la gente beve alcolici?
- Perché sono sgradevoli da mandare giù, direi.

La tentazione di prendere uno dei dialoghi iniziali di Confession of Pain e farlo assurgere a metafora del rapporto perverso di dipendenza tra il cinefilo assetato di nuovi sapori e la produzione hongkonghese, tanto sgradevole da mandar giù (secondo i canoni occidentali) quanto facile a dare assuefazione, è forte. E richiama alla mente la perversa associazione handover/hangover (i danni dell’esposizione prolungata alla maieutica ghezziana?), che s’adatta come un guanto al doloroso risveglio, nostro e di un’intera cinematografia, all’alba dell’ormai lontano 1997.

Ma sarebbe comunque troppa grazia per una pellicola non certo destinata a scaldare i cuori (o le budella) dei cultori della ex colonia, e che al massimo può procurare sonnolenza e qualche bruciore di stomaco. Anzi, i puristi del fronte no-remake, che avevano alzato alti lai all’epoca di The Departed, farebbero meglio ad accendere un cero in chiesa o davanti alla loro copia di The Killer, e pregare che san William Monahan faccia loro la grazia. Se è vero che a Hollywood si sono assicurati i diritti di Confession of Pain praticamente a scatola chiusa (l’annuncio arriva nel febbraio 2007, due mesi dopo l’uscita nelle sale del film, e si parla di Leonardo Di Caprio come protagonista) e che lo sceneggiatore del remake di Infernal Affairs si occuperà dell’adattamento Usa, il fatto che il progetto tardi a concretizzarsi (imdb ipotizza per l’uscita un dubbioso 2011) potrebbe anche significare – al di là delle lentezze congenite della macchina hollywoodiana, coi suoi stop improvvisi, semafori verdi, rimpasti e via dicendo – che mr. Monahan (o chi per lui) stia facendo una fatica immane a riplasmare in forma appetibile lo script di Felix Chong e Alan Mak. E non c’è da stupirsene.

Inizia come un classico “buddy cop movie”, Confession of Pain. Due poliziotti, un bicchiere di whisky, dialoghi imbevuti in certa malinconia chiaroscurale, la contrapposizione tra la folla gioiosa che festeggia il Natale e la solitudine (interiore e non) dei due hard boiled cops che da un terrazzo attendono il “la” per seguire un sospetto stupratore seriale, sorseggiando malto e riflettendo sulle proprie esistenze. Entrambi inquieti e meditativi, Hei (Tony Leung Chiu-wai) e Bong (Takeshi Kaneshiro), il secondo in crisi con la propria donna. Pedinamento in auto, irruzione nella casa del violentatore, esplosione di violenza del pacato Hei che tramortisce l’arrestato, e la tragedia che irrompe subito dopo nella vita di Bong, il quale di ritorno a casa trova la compagna suicida.
Un inizio promettente: solo che Lau e Mak perdono quasi subito le redini del racconto, e lo fanno nel peggiore dei modi possibili. Quando il plot entra nel vivo, con il cruento omicidio del suocero di Hei, l’immediato ribaltamento narrativo – mostrare subito che l’omicida è lo stesso Hei, il quale fa ricadere la colpa su due delinquentelli opportunamente eliminati, trasformando la detection in una inverted story e offrendo al pubblico la metamorfosi di Tony Leung in villain – dovrebbe nelle intenzioni scombussolare lo spettatore e portare avanti la suspense su due binari: seguire il percorso verso la verità di Bong – che dopo aver lasciato la polizia è diventato detective privato, si ammazza di alcool e coltiva una relazione randagia con la barista-mignottella Sai Fung (Shu Qi) – e disvelare a poco a poco il movente di Hei, all’apparenza marito amoroso con (si intuisce) un oscuro segreto. Replicare lo schema binario di Infernal Affairs, alzando il tiro: l’enfasi sulla dimensione psicologica, il clima di lutto e persistente malinconia dovrebbero (dovrebbero) sollevare Confession of Pain dalle dinamiche thriller per condurlo a vette mélo-esistenzialiste.
Si capisce il perché dell’ironia di certi blogger hongkonghesi su una campagna promozionale incentrata sul ruolo da “cattivo” di Tony Leung, che spiffera in anticipo l’unica modesta sorpresa del film (un po’ come pubblicizzare Psyco strombazzando “venite a vedere Anthony Perkins vestito da donna con un coltellaccio in mano”, insomma): una volta assorbita la nozione che Hei è il colpevole, Confession of Pain si è già bell’e giocato le sue cartucce. Delle mosse di Leung ci importa poco perché nulla sappiamo – né in verità ce ne può fregare granché – del suo movente, la cui rivelazione è prorogata al punto che lo scioglimento risulta per forza inadeguato – per concezione e messa in scena – all’estenuante build-up, mentre Bong ci mette una vita a capire quello che qualunque segugio mediamente sveglio avrebbe intuito subito, facendo due più due. E man mano che si procede, le incongruenze vengono a galla (tutto quel che riguarda la vera identità di Hei è un attentato alla credulità dello spettatore) e la logica se ne va per i fatti suoi.
Né coinvolgono i drammi privati di questi due sbirri perduti ma molto chic, in una Hong Kong così cartolinesca e fasulla da sembrare una versione candeggiata ad hoc per palati occidentali della caotica metropoli descritta dai vari Tsui, Johnnie To, Wilson Yip: esemplari le inquadrature notturne del meditabondo Bong in un salotto con vista baia che sembra esistere solo per permettere la bella inquadratura, col beneplacito dell’ufficio turismo. Griffato dalla testa ai piedi come il suo collega, il personaggio di Kaneshiro è uno stereotipo ambulante – oltretutto intercambiabile con il personaggio di Aaron Kwok in Divergence: che Chong e Mak si siano dedicati a caratterizzare i personaggi a colpi di copia-incolla e tasto F4 come i tre sceneggiatori di “Boris”? –, con le sue sbronze, l’autocommiserazione galoppante, i vagabondaggi da un bar all’altro, ‘mbriaco ma figo perché le ammiratrici sennò si scocciano. D’altro canto il tema della vendetta perseguita e costruita tassello dopo tassello fino a consumare un’esistenza (Hei annulla se stesso e la propria vera identità, costruisce una famiglia col solo proposito di distruggerla) presuppone un vendicatore con un peso specifico che Hei non raggiunge mai.
Il troppo stroppia anche in sede di regia. Un colpo al cerchio e uno alla botte, un po’ di grand-guignol nella scena dell’omicidio (il sangue che cola copioso dalla statuetta di Budda con cui Hei ha sfondato il cranio dello suocero), un forsennato inseguimento notturno a piedi tra vicoli e bar, insistiti ralenti e struggimenti romantici sottolineati dalla partitura di Chan Kwong Wing. Lo sfoggio di autocompiaciuti artifizi registici – come le “visioni” in bianco e nero del delitto che prendono vita davanti a Bong, calato a mo’ di testimone in mezzo alla scena e unico personaggio a colori – si fa ben presto stucchevole, come pure le bellurie della fotografia (dello stesso Lau e Lai Yiu Fai). Neppure le due star, insieme per la prima volta dai tempi di Chungking Express (dove però non condividevano mai la scena) sembrano convinte: un po’ come De Niro e Pacino, capitombolati da Heat a Righteous Kill. Leung caratterizza il suo personaggio col minimo sindacale (occhialini da intellettuale e faccia contrita per tutti i 110’), mentre Kaneshiro pesca dal manuale dell’ubriacone al cinema, anche se il peggio tocca alle donne, la mainlander Xu Jing Lei (cui tocca una ridicola scena di suspense da pianerottolo) e la povera Shu Qi, ridotta a fare da tappezzeria, mentre Chapman To è una zeppa comica peso piuma. Good luck, mr. Monahan.



Hong Kong, 2006
Regia: Andrew Lau, Alan Mak
Soggetto/Sceneggiatura: Felix Chong, Alan Mak.
Cast: Tony Leung Chiu-wai, Takeshi Kaneshiro, Shu Qi, Xu Jing Lei.