Categoria: PROFILI

Wong Kar-waiEternamente nascosto da un paio di occhiali da sole, eternamente in ritardo nella consegna di un film in concorso a un festival, impareggiabile quando si tratta di filmare l'amore, nella maniera più estetizzante, idealizzata e struggente che si possa concepire. Questo è Wong Kar-wai, figlio(l prodigo) del cinema di Hong Kong, ma nato diverso, come un piccolo genio che non riesce a omologarsi alla compagnia dei coetanei della scuola. Se la new wave del cinema di Hong Kong si concentra sulla riscossa dei generi cinematografici, come l'orgoglio wuxia dei primissimi Patrick Tam e Tsui Hark o la heroic bloodshed di Ringo Lam e Kirk Wong e poi di John Woo, Wong Kar-wai (che comincia proprio alla corte di Tam, scrivendo la sceneggiatura per Final Victory del 1987) conosce i generi cari a Hong Kong, ma li reinventa in uno stile contaminato dalla nouvelle vague francese; e infine, in ultima analisi, solo e soltanto wongkarwaiano. Nessun altro potrebbe affrontare dialoghi altrettanto ambiziosi e uscirne credibilmente vincitore, rendendo storie generazionali la quotidianità (così poco quotidiana) delle storie d'amore metropolitane di Chungking Express. O ancora trasportare nel wuxia quei tormenti d'amore che attraversano l'intero corpus dell'autore e che nella sua poetica sembrano precedere, accompagnare e forse seguire (nel 2046?) la storia dell'uomo.

È Patrick Tam - o almeno così vuole la leggenda - a introdurre alle delizie del cinema europeo il giovane e talentuoso Wong, fin lì uno sceneggiatore (nato a Shanghai nel 1958 ma ben presto trasferitosi a Hong Kong) arrabattatosi negli '80, transitando da un genere all'altro, prima della rivelazione di Final Victory, deliziosa commedia noir interpretata da due attori-registi, Eric Tsang e il grande Tsui Hark. Il debutto dietro la macchina da presa avviene l'anno successivo con As Tears Go By e lascia già trapelare la contaminazione di Godard e del cinema europeo, come di Scorsese e Mean Streets (di cui As Tears Go By è quasi un remake sotto mentite spoglie), all'interno di un impianto ancora solidamente di genere, che non si vergogna, nella più tipica tradizione hongkonghese, di riciclare colonne sonore altrui, come la Take My Breath Away di Top Gun rivisitata in cinese. L'eroe tormentato è Andy Lau, idolo delle ragazzine, la ragazza della porta accanto una giovanissima Maggie Cheung, ancora lontana dallo status di diva che lo stesso Wong contribuirà a plasmare. La critica trova pane per i suoi denti, il pubblico accorre in sala: è nato un autore con la A maiuscola. E il secondo film, Days of Being Wild, del 1990, mostra già ambizioni di altra natura: la storia di un playboy autolesionista, ambientata nella Hong Kong degli anni '60, è quasi un pretesto affinché Wong possa cimentarsi con tecniche innovative di montaggio (lo step-framing che sarà marchio di fabbrica delle prime opere, con l'apparente velocizzazione delle immagini in primo piano su uno sfondo fisso) e sfruttare al meglio la fotografia impeccabile di Christopher Doyle. Il pubblico non risponde nella maniera attesa, ma Wong incassa il plauso della critica e si getta a capofitto nell'impresa temeraria di Ashes of Time, trasposizione del romanzo epico The Legend of the Condor Heroes rivisitata alla maniera di Wong Kar-wai, in cui gli amori impossibili e il dolore del ricordo e delle occasioni mancate possono ben più di un qualunque duello all'ultimo sangue (peraltro splendidamente coreografati da Samo Hung). L'estetica del regista tocca forse i suoi massimi livelli e con lei la contorsione melò della sceneggiatura, anche grazie a un cast che raccoglie il meglio che lo star system di Hong Kong dell'epoca possa offrire: Leslie Cheung, i due Tony Leung, Maggie Cheung e Brigitte Lin nel sensazionale ruolo yin/yiang del guerriero/a androgino e schizofrenico. Un capolavoro assoluto che si traduce in un clamoroso flop al botteghino per l'incapacità di Wong Kar-wai nel contenere costi e tempistiche di ripresa, salvato economicamente solo in parte dal curioso paradosso per cui la parodia demenziale tratta dallo stesso romanzo, The Eagle Shooting Heroes, diretta dal sodale Jeff Lau, prodotta dallo stesso Kar-wai e interpretata sostanzialmente dallo stesso cast impegnato nelle lunghe riprese di Ashes, si sia rivelata un incasso straordinario.

Ma i benefici delle pause tra le riprese di Ashes of Time non si sono fermati lì; è in questi interstizi che prende forma una storia apparentemente minore, le vicende parallele di due agenti di polizia innamorati nella Hong Kong odierna. Budget contenuto, trama inesistente e opera indimenticabile, forse a tutt'oggi il miglior concentrato possibile delle manie e fissazioni del cinema di Wong Kar-wai e dello spirito popolare ma intriso di vitalità artistica di Hong Kong tutta: il film esce nel 1994 e si chiama Chungking Express, ma in Italia viene distribuito come Hong Kong Express. Al mondo occidentale lo fa conoscere Quentin Tarantino, rendendolo immediatamente un cult, dalla risonanza destinata a non estinguersi mai. L'anno successivo, sfruttando un episodio di Hong Kong Express dilatatosi eccessivamente e accostandogli un'altra “storia parallela”, Wong Kar-wai torna sui medesimi lidi e prova a ripetere l'esperimento. Angeli perduti non è all'altezza del predecessore, perché calca leggermente la mano dove Hong Kong Express prediligeva il lirismo della semplicità, ma è un altro abbacinante racconto di spleen metropolitano, immortalato dalle luci al neon di una metropoli notturna e inafferrabile. Happy Together, del 1997, raccontando un triangolo omosessuale diviso tra Hong Kong e Argentina, porta il binomio melò-tormento esistenziale ad altezze visivamente sublimi anche se a un passo dal rischio di manierismo: non per la giuria del festival di Cannes, che tributa a Wong il premio per la Miglior Regia.

Il 1997 è anche l'anno dell'handover, ossia del ritorno (parziale) di Hong Kong alla Cina; processo che si completerà nel fatidico 2046, un anno che per la poetica dell'autore diviene una sorta di ossessione ricorrente. In the Mood for Love del 2000 è per alcuni l'apice di WKW, forse ambizioso come mai prima d'ora nel fotografare lo splendore di sequenze ideate per rimanere impresse nella memoria e destinate a riuscirci, anche grazie alla colonna sonora di Shigeru Umebayashi. L'amore impossibile e non concretizzabile di un marito e una moglie, trascurati dai rispettivi coniugi fedifraghi, presta il fianco a digressioni liriche ed estetiche che trovano compimento tra le pareti ancestrali del tempio di Angkor Wat. Sequel mascherato di In the Mood for Love e in realtà terzo capitolo di una trilogia che si ricollega a Days of Being Wild è il visionario 2046, croce e delizia dei fan del regista. Qualcuno si allontana di fronte all'autoreferenzialità quasi ostentata del regista, dove altri si appassionano ancor di più all'apoteosi della visione di Wong, che attraverso l'alter ego dello scrittore interpretato da Tony Leung Chiu-wai cerca in tre diverse donne la Su Li Zhen di In the Mood for Love, irraggiungibile e irresistibile oggetto d'amore. Dopo aver presieduto la giuria di Cannes nel 2006, Wong Kar-wai gira nel 2007 il primo film hollywoodiano: Un bacio romantico (My Blueberry Nights in originale), rivisitazione di temi e personaggi a lui cari con interpreti occidentali. Wong torna in patria per dedicarsi a The Grandmasters, storia di Ip Man, maestro dello stile di arti marziali wing chun noto per aver addestrato Bruce Lee. Mentre gli anni trascorrono e si addensano le voci sul film, nel frattempo Wilson Yip confeziona la sua versione della storia, rivolgendosi a un target più popolare e scegliendo le doti eccelse del kung fu di Donnie Yen per la parte di Ip Man. Wong osteggia la produzione della pellicola, obbligando a un cambio del titolo da The Grandmaster Ip Man al semplice Ip Man. Il film sarà campione di incassi al botteghino e genererà un sequel, ancora diretto da Wilson Yip, mentre solo nel 2013 vedrà la luce The Grandmasters, aprendo la 63.ma edizione della Berlinale, con Wong Kar-wai nuovamente nei panni del Presidente di Giuria.