Categoria: PROFILI

Jingle MaNato nel 1954, Jingle Ma lavora nel mondo della fotografia e della pubblicità (anche se come regista di spot non sembra avere grandi prospettive) prima di approdare al cinema, nel 1986, sotto l'egida di Yonfan, come operatore per Passion (lavoro ottenuto implorando la protagonista Sylvia Chang) e Immortal Story. Dopo un breve apprendistato si ritaglia presto uno spazio professionale di rilievo, in special modo per la Golden Harvest, come apprezzato direttore della fotografia soprattutto per prodotti ad ampio budget e dalle non celate ambizioni commerciali. Preciso, professionale, capace di adattarsi alle direttive di qualsiasi tipo di regista - l'autore e l'artigiano -, Ma riesce, nell'iperproduttività dei ruggenti anni '90, a lavorare con continuità senza sacrificare la qualità.
Impegnato contemporaneamente su diversi set, particolarmente a suo agio con Jackie Chan, riesce a illuminare una media di quattro / cinque film all'anno, guadagnandosi cinque nomination (Kawashima Yoshiko, Farewell China, City of Glass, Fly Me to Polaris, Summer Holiday) e un Hong Kong Film Award (Comrades, Almost the Love Story). Tra le sue prestazioni migliori si segnalano i giochi di luce in notturna di The Private Eye Blues, le piroette brillanti al seguito di Stephen Chiau per The God of Cookery, i contrasti cromatici di The Wedding Days, i colori tenui di Love Is not a Game, but a Joke.
Con Hot War passa dietro la macchina da presa e amplia i suoi orizzonti, improvvisandosi anche produttore (Marooned, 2000, di Liu Kim Wa) e soggettista. Il neo regista si fa propugnatore di un cinema solare, generalista, che aldilà del genere prescelto - azione, commedia, dramma - possa essere subito riconoscibile e facilmente fruibile a beneficio di un pubblico allargato. Già dall'esordio dimostra la sua preferenza per una confezione patinata, di maniera, colorata, rumorosa, musicalmente aggiornata (Ma è anche batterista a tempo perso), popolata da attori giovani, carini e trendy (come Kelly Chen, Ekin Cheng, Aaron Kwok o Richie Ren). Soprattutto in ambito romantico-leggero, le sue opere sono modellate sui presumibili gusti dello spettatore medio, rifacendosi ad un tipo di pubblico globalizzato, che ama tanto il tecnologico Giappone che Hong Kong (come entità postmoderna).
Jingle Ma affronta i generi con il piglio del rinnovatore, ma in realtà agisce in maniera opposta, limitandosi a ritoccare la facciata senza intaccare la sostanza. Non a caso funzionano meglio i blockbuster costruiti a tavolino, meglio se d'azione, come Hot War e Tokyo Raiders, che non le dissertazioni pseudo-autoriali dove a mancare è proprio la personalità dell'artefice. Un mélo come Fly Me to Polairs, per esempio, non è che una sterile riproposizione, a dire il vero asettica, di moralismi e stereotipi già visti mille volte al cinema e perdipiù trattati in altre sedi con maggiore competenza. Il successo deriva allora dal saper vendere il contenitore a dispetto della pochezza del contenuto. Quando non ci sono eccessi di ambizioni, come nel divertito Summer Holiday, il gioco regge abbastanza, ma troppo spesso avviene il contrario, come nel banale Para Para Sakura, musicarello tutto fumo e niente arrosto.
Giunto oggi all'ottavo film, tutti prodotti dalla Golden Harvest e in qualche modo patrocinati da Jackie Chan, Ma sembra destinato ad abbandonare definitivamente la precedente carriera di fotografo, se non per i suoi film, per privilegiare l'attività registica a tempo pieno. Ma gradualmente, invece di ingranare, la carriera di Ma è declinata: paradossalmente una debacle causata proprio da quelle poche pellicole minimamente personali, come Why Me, Sweetie?!, girato in Cina (visto che il Giappone è passato di moda, ça va sans dire), e Goodbye Mr Cool rilettura non spiacevole dell'hardboiled classico. Cooptato da Michelle Yeoh per l'ambizioso e costoso Silver Hawk, tremendo flop, dopo alcuni buoni riscontri commerciali (Tokyo Raiders è arrivato fino in Italia, anche se solo in home video), il regista sembra ormai aver perso il controllo del botteghino, relegato al ruolo di esecutore artigianale privo di umiltà, abbandonato anche dal pubblico, l'unico che finora gli avesse dato ragione.