Categoria: FILM

Esprit d'amourUn timido assicuratore, maltrattato da tutti - in special modo dalla fidanzata -, deve occuparsi di un caso di suicidio tutt'altro che risolto: lo spettro della defunta ragazza, infatti, tormenta l'uomo affinché certifichi la sua morte come incidente per far incassare la polizza alla nipotina adottiva. A furia di frequentarsi, lo spirito e l'essere umano finiscono per innamorarsi l'una dell'altro. Esprit d'amour non è il film che viene spesso spacciato: né un horror comico - nonostante l'efficace parentesi esorcistica e la prima seduta spiritica, entrambe inquietanti -, né una pellicola di fantasmi tipo Rouge; bensì una love story tragica che parte, in chiave moderna, dalle stesse premesse di A Chinese Ghost Story e ne ripropone il canovaccio sentimentale in un contesto più scanzonato. Due infatti gli umori che continuamente si alternano: a una risata (più sovente un semplice sorriso di partecipazione) segue l'alone tragico e commovente di un momento di pathos, e viceversa, sino al finale (sbrigativo ma ottimista; molto delicato, con il tipico video-clip musicale, cantato da Tam sotto la pioggia).
Come in tanti prodotti di questo tipo i difetti si notano subito, in particolare l'eccessiva smania di sintetizzare e arrivare al dunque, oltre ad una scarsa cura per alcuni personaggi, abbandonati troppo in fretta, e per le loro relazioni, appena abbozzate. Il che non impedisce che gli schieramenti in campo siano ben distinguibili, così come deciso in principio: da un lato la coppia impossibile, e i loro alleati deboli (il fratellino piccolo genio e il padre frustrato, tipico hongkonghese medio se ce n'è uno); dall'altro gli antagonisti della relazione, le donne di casa (madre e fidanzata, ugualmente despote e antipatiche) e gli specialisti del sovrannaturale. Attori in parte, valido soprattutto il trio centrale, con i due piccioncini uniti dall'astio del pubblico nei confronti della tirannica, spocchiosa - e proprio perciò bravissima - Cecilia Yip (qui accreditata con il suo primo nome d'arte, Cecilia Chan). Curiosamente gli stacchi comici toccano a un duro del grande schermo, Phillip Chan, che risponde presente con grande ironia (da applausi il suo discorso sul valore politico e sociale delle prostitute).
Dietro la macchina da presa il debuttante Ringo Lam, fresco di studi canadesi, scritturato dal produttore Karl Mak per rimpiazzare un collega che dopo i primi giorni di riprese era già riuscito a deludere i vertici della Cinema City, si mette subito in mostra. Le idee dell'inesperto - ma non si vede - regista e l'esecuzione impeccabile (tante carrellate veloci a dare ritmo; il pregevole montaggio parallelo tra un balletto allegorico e la caccia finale allo spettro) rinvigoriscono una sceneggiatura tutto sommato di routine, brillante ma non particolarmente originale per gli standard qualitativi, molto alti, della commedia romantica del periodo. Fotografia, effetti speciali - grossolani ma efficaci - e direzione artistica, nettamente sopra media, sono addirittura oscurati dalla colonna sonora commovente. Violet Lam fa quello che le riesce meglio: elabora un tema portante da riutilizzare, riarrangiato a seconda della circostanza, a oltranza: come risultato dopo poche note la dolcissima melodia - prima molto semplice, un carillon, di seguito sempre più complesso, orchestrato con archi e chitarre - si inchioda in testa e detta i tempi del dramma.

Hong Kong, 1983
Regia: Ringo Lam
Soggetto / Sceneggiatura: Clifton Ko, Fung Sai Hung, Lo Gin
Cast: Alan Tam, Joyce Ngai, Cecilia Yip, Phillip Chan, Tien Feng