Andrew LauNato a Hong Kong nel 1960, Andrew Lau comincia giovanissimo a fare esperienza con gli Shaw Brothers, abbandonati a metà anni '80 per passare alla Cinema City. E' apprezzato direttore della fotografia a partire da Where's Officer Tuba e Mr. Vampire Part 2, entrambi del 1986. Con City on Fire di Ringo Lam comincia a mettere a punto quello che diventerà il suo stile portante: colori freddi ma intensi, luci brillanti in notturna, location povere e grezzo realismo. Con la sua bravura tecnica illumina e valorizza prodotti di ogni genere: dal noir (As Tears Go By) all'horror comico (Mr. Vampire Part 3), dalla commedia nostalgica (He Ain't Heavy, He's My Father!) alla fantascienza d'annata (The Wicked City), fino ai tesi Gunmen e Wild Search.
Spinto da Danny Lee, che lo recluta come esecutore, debutta alla regia con Against All, poliziesco stradaiolo che in parte anticipa la sua passione per un cinema d'azione personale e intimista, popolato da piccoli anti-eroi tragici alle prese con problemi oltre la loro portata e spirito di sacrificio. I buoni risultati di un horror di transizione e dell'ennesimo action proletario, The Rhythm of Destiny, ancora con Danny Lee, spingono Lau tra le braccia del produttore Wong Jing, che lo mette alla prova con il curioso Ghost Lantern, mélo fantastico a base di triadi e fantasmi. In Raped by an Angel, seguito spurio di Naked Killer, Wong gli affida la protetta Chingmy Yau, per l'ennesima volta in coppia con Simon Yam. La carriera di Lau, almeno fino a To Live and Die in Tsimshatsui, notevole tour de force di un undercover in grave difficoltà psicologica, sembra destinata al basso anonimato artigianale: né il softcore Lover of the Last Empress, fengyue piccante e patinato sempre con Chingmy Yau, né l'episodio del collettivo Modern Romance fanno intuire le ambizioni di un regista / tecnico impegnato su troppi set contemporaneamente.
La svolta è con Young and Dangerous, anticipato dal piacevole Mean Street Story. Tratto da un popolare fumetto locale, Rascals, il film sbanca a sorpresa al box office e lancia un trend fatto di giovani mafiosi ambiziosi, freddi e determinati, di intrighi sempre più impegnativi e di missioni da completare (omicidi, donne da conquistare, pestaggi con gang rivali, boss da tenere sotto controllo). L'estetica cool dei protagonisti e la glamourizzazione della malavita conquista il pubblico meno maturo, che affolla le sale e, come accadeva nel decennio precedente per A Better Tomorrow e Chow Yun Fat, imita le star dello schermo vestendosi e comportandosi alla stessa maniera. Anche se la vera rivoluzione è a livello stilistico, con un ritorno convinto alla schiettezza del gangster film degli anni '80, alla violenza dei film del primo Ringo Lam e a dialoghi e look aggiornati alle mode del momento. Topoi del sotto-genere: camera a mano, altalenante, fotografia sgranata, location urbane di forte impatto visivo, scene di massa girate con estremo rigore stilistico, tanto da meritarsi i complimenti di colleghi insospettabili, come Ann Hui. In meno di due anni Lau sforna quattro seguiti, un prequel e produce diverse imitazioni (come Street Angels); l'industria non perde tempo e sfrutta la moda creando un filone a parte sulle stesse premesse, copiando a man bassa (War of the Under World; Streets of Fury), parodiando (Once Upon a Time in Triad Society) e rileggendo (To Be No. 1 di Raymond Lee) in maniera opposta i medesimi modelli. Gli attori di Young and Dangerous - volti ricorrenti nella filmografia di Lau, come Ekin Cheng, Jerry Lamb, Michael Tse, Jordan Chan, il redivivo Roy Cheung, Gigi Lai - diventano immediatamente popolari e si conquistano un posto al sole.
Proprio nel 1996 Lau si unisce in società con il fidato Manfred Wong, produttore e sceneggiatore, e con Wong Jing, fondando la BOB & Partners, casa di produzione di grande successo deputata a produrre tutti i suoi prossimi film. Con un unico obiettivo primario: sfruttare a fondo la gallina dalle uova d'oro fino all'esaurimento. Il che vuol dire sette episodi ufficiali della serie in cinque anni (compreso il recente flop di Born to Be King, 2000, vano tentativo di rivitalizzare uno schema ormai morente), tre spin-off (Portland Street Blues e City of Desire, con Sandra Ng, Those Were the Days, con Jordan Chan) e diverse riproposizioni, in ambiti solo leggermente diversi, degli stessi temi: è il caso di The Legend of Speed, ambientato nel mondo delle corse d'auto clandestine, di Best of the Best, che sostituisce le triadi con i corpi paramilitari della polizia di Hong Kong, di We're No Bad Guys, prodotto da Lau e diretto da Wong Jing, che ripropone gli stessi eroi giovani in un contesto più dinamico e spiritoso.
La continua ripetizione e l'eccesso di offerta presto stanca il pubblico e se da un lato porta Lau alla consacrazione definitiva dall'altro ne limita la crescita, costringendolo in un tunnel di stereotipi e soluzioni di comodo. Non è tanto il caso del controverso e sperimentale The Storm Riders, il cui incredibile successo salva la Golden Harvest dal fallimento, quanto dei successivi A Man Called Hero e The Duel. Lau scopre gli effetti digitali e, dopo un primo intelligente tentativo di applicarli a forme classiche in maniera anti-realistica, non per perseguire la credibilità dell'azione ma al contrario per provocare stupore e estasi fantastica, cede alla tentazione del nuovo giocattolo, sterilizzandone le potenzialità e scadendo in estetizzazioni di maniera. Perdipiù il confronto con i più attrezzati blockbuster americani, plausibile se la scelta è antitetica come in The Storm Riders, non è proponibile se il digitale è adoperato in maniera tradizionale, come avviene nei mediocri The Wesley's Mysterious Story o nel noir cyberpunk The Avenging Fist, non a caso snobbati anche dal grande pubblico. I tentativi di retromarcia - il prevedibile mélo Sausalito, il modesto Bullets of Love, l'inguardabile Women of Mars; va meno peggio solo con il ritmato Dance of a Dream - sono altrettanto goffi, e dimostrano come un autore promettente, con personalità e stile abbia finito, nel disperato tentativo di incoronarsi massimo profeta del cinema locale, con l'auto-retrocedersi ai vecchi ranghi di mestierante monotono e saccente.
A Lau sembra mancare proprio la modestia per ammettere i propri errori e tornare indietro con convinzione sui propri passi, per riscoprire la semplicità dei primi successi. Ma quando anche il pubblico, ultimo fedele baluardo, lo abbandona, Lau decide per un netto cambio di rotta. E' una mossa più astuta che sentita: reclutato un regista promettente come Alan Mak (X-Mas Rave Fever; A War Named Desire), Lau gli concede la condivisione della cabina di regia e recluta un cast di stelle per ritornare in grande stile in carreggiata. Lo strapotere al box office e i plausi della critica - comprese numerose nomination agli Hong Kong Film Awards - rivolti ai tre Infernal Affairs, usciti a breve distanza l'uno dall'altro, fanno ben sperare. Ma è difficile - e forse anche inutile - distinguere i meriti, soprattutto in fase di sceneggiatura, di Mak, l'esperienza di Lau, che sicuramente lascia il segno sulla splendida fotografia, e l'appeal di un parco attori di sicuro impatto (tra cui Andy Lau, Tony Leung Chiu-wai, Eric Tsang, Leon Lai, Anthony Wong). Tanto da convincere Martin Scorsese ad acquistarne i diritti per un prossimo remake hollywoodiano. Ma poco è cambiato: dopo la parentesi, Lau torna subito alla computer grafica in dosi massicce con The Park, sbiadito horror in 3D.
Messe da parte le inevitabili delusioni per una carriera il cui corso avrebbe potuto essere, viste le premesse, di ben altra sostanza, bisogna considerare Andrew Lau oggi con le dovute precauzioni. Da un lato va encomiato per il coraggio con cui rischia in prima persona, affidandosi a interpreti emergenti e a soluzione formali innovative, dall'altro va biasimata la testardaggine con cui, una volta incassato l'ennesimo insuccesso, continua imperterrito per la stessa strada. E' un veterano affidabile, capace di adattare il proprio stile e di impegnarsi su mille fronti, mecenate (ha lanciato tra gli altri registi come Joe Ma, Raymond Yip e Chin Man Kei) e imprenditore, risorsa comunque importante di un cinema a metà tra globalizzazione e tradizione, tra esigenze economiche e ambizioni decisamente fuori portata.

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