Peter ChanParlare in termini di autore quando si parla del cinema di Hong Kong è sempre un azzardo, tanta è la complessa commistione tra esigenze commerciali e sviluppo di un proprio percorso personale per un regista. A maggior ragione lo è per Peter Chan, autentico emblema del “regista di Hong Kong”, tanto nei suoi pregi che nei suoi difetti. Chan Ho-sun, nato a Bangkok e cresciuto tra Hong Kong e Tailandia, ha attraversato tutti i generi possibili adattando la sua poetica di volta in volta, flirtando con le richieste della produzione e cogliendo il business del mercato, ma mantenendo un suo quasi impalpabile segno distintivo. Il segreto di questo sapiente mix è quello di aver mantenuto dei punti fermi nel proprio complesso iter, affidandosi per il primo periodo agli script dell'inseparabile Lee Chi-ngai, ricorrendo quando possibile agli stessi attori – Eric Tsang, Anita Yuen, Leon Lai, Takeshi Kaneshiro i più “fedeli” - e adottando la medesima leggerezza nella trattazione dei generi (commedia, melò, musical, horror, wuxia), rispettoso della forma e del canone ma sempre con la capacità di compiere un passo indietro e ritrovarsi nel proprio terreno ideale. Stile scintillante e accattivante ma sostanza profondamente ancorata nel substrato della gente comune di Hong Kong.

Perhaps Love o Comrades, Almost a Love Story, ad esempio, parrebbero i due film più lontani uno dall'altro che si possano concepire per linguaggio e stile (barocco e figlio della trasferta hollywoodiana il primo, pseudo-dimesso, nonostante Christopher Doyle, e intriso di problematiche tipiche di Hong Kong e dei migranti il secondo) ma vibrano delle stesse emozioni, così fortemente presenti nel sottotesto – come maliziosamente il titolo richiama, da un quasi amore a un forse amore. Nel registratore gracchiante che univa Kaneshiro e Zhou Xun in Perhaps Love come nelle canzoni di Teresa Tang o nelle mani di Maggie Cheung - alle prese con un gesto banale (se le asciuga dopo aver lavato i piatti), ma colme di significato per l'incertezza con cui si muovono, pari a quella che alberga nell'animo della protagonista di Comrades.
Amori o sentimenti in genere più forti delle divisioni di censo, più degli scherzi del destino, più dell'ambizione e della brama di successo, con cui combattono un duello all'ultimo sangue. Come per Tony Leung Chiu-wai in He Ain't Heavy, He's My Father, a cui servirà un viaggio nel tempo per incontrare il padre in gioventù e apprezzarne le qualità umane. Oltre che per capire che la storia non si può riscrivere e il futuro non si può cambiare, ma si può accettare il passato e osservarlo con altri occhi per farne tesoro. O per il Leon Lai di Going Home, episodio di Three e unica incursione di Chan nell'horror, per il quale nemmeno la morte è un ostacolo sufficiente a separarlo dalla donna che ama (e nel ricorso alle proprietà curative della medicina tradizionale cinese si possono leggere ancora più significati legati alla poetica della nostalgia del regista). O ancora nell'impossibile tradimento ordito da Jet Li, sempre in nome dell'ambizione, in The Warlords. Chan Ho-sun il trasformista, che si nasconde, indossa maschere di forma e colore differenti, quasi a prendersi gioco dello spettatore, insinuando poi in lui subliminalmente la propria way of life, quella di un apolide che conosce cosa significhi e che sacrifici comporti guadagnarsi un'identità a Hong Kong e proprio per questo non se ne dimentica qualunque cosa accada e ovunque si trovi. Proprio come Leon Lai turista spaesato che osserva la Statua della Libertà attraverso un vetro.
Non è un caso quindi che benché Chan - in virtù del successo di He's a Woman, She's a Man (oltre 29 milioni di HK$) e di Comrades (oltre 20 milioni di HK$ e enorme successo di critica) - fosse accreditato più di altri registi dell'ex-colonia inglese a un successo hollywoodiano, sia poi finito per integrarsi ancor meno di colleghi come Woo, Hark o Lam, racchiudendo nella sola sfortunata parentesi di The Love Letter la fugace trasferta oltreoceano. Unico fallimento vero, peraltro, di una carriera costellata di successi al botteghino e di imprese produttive, perché il Chan moneymaker è aspetto non meno rilevante del Peter Chan regista. Prima di debuttare dietro la macchina da presa, infatti, Chan ha già prodotto ben quattro film, primo dei quali lo sfortunato Heroes Shed No Tears diretto da un John Woo pre-A Better Tomorrow. E la proporzione rimarrà più o meno questa: un film da regista, quattro da produttore. Il debutto alla regia, ossia il delizioso Alan and Eric – between Hello and Goodbye, è anche la prima pietra poggiata sulle fondamenta della UFO – United Filmmakers Organisation – piccola miniera d'oro in nome della quale Chan, l'amico-collaboratore Eric Tsang (sulle mille cose regalata da questo piccolo grande uomo al cinema di Hong Kong andrebbero scritti tomi interi) e il fido Lee Chi-ngai hanno confezionato quel compromesso di astuzia commerciale e valore artistico che ha dato lustro alla commedia negli anni '90 e ha reso Anita Yuen una star quasi onnipresente del cinema pre-handover (salvo poi sparire dagli schermi come sovente capita alle attrici di Hong Kong una volta “accasate”). Non la United Artists di Hollywood, ma un consesso di amici, cineasti e abili affaristi che indovinano la formula giusta, insistendo sulla confusione dei sessi che – come ci insegna Stanley Kwan con il suo Yang & Yin: Gender in Chinese Cinema – è parte integrante del cinema cinese sin dalle sue origini, ma mantenendola nei binari del politically correct, con una maestria nei tempi tecnici della commedia (più in He's the Woman, She's the Man che nel seguito Who's the Woman, Who's the Man) tale da raggiungere un'ampia fetta di pubblico pur senza avvalersi di una vis comica inarrestabile à la Michael Hui.
Se il successo nella commedia porta Chan allo sbarco oltreoceano, è tutt'altra la strategia produttiva che gli permette di tornare sulla cresta dell'onda una volta tornato a Hong Kong. Peter è uno dei primi nel post-handover, infatti, a intuire le potenzialità insite in un universo in fase di smottamento come quello che gravita attorno a Hong Kong e che lambisce altre cinematografie, come Corea del Sud, Tailandia o la stessa (nuova) Cina, che a Hong Kong devono un ingente tributo in termini di creatività. Di qui l'intuizione di coinvolgere il più possibile elementi di cinematografie altre, rendendo rapidamente panasiatiche produzioni che un tempo sarebbero rimaste segregate nell'alveo dell'ex-colonia. Basti pensare che solo nel 1996 la presenza dei coreani in Beyond Hypothermia di Patrick Leung o quella dei mainlanders in un numero spropositato di pellicole equivaleva a una presenza esotica quando non quasi aliena. Già nei primi anni Zero, invece, Chan produce The Eye, successo enorme e quintessenza di produzione panasiatica, dove gli stessi registi – i famigerati fratelli Pang – sono per metà tailandesi proprio come Ho-sun, contribuisce a Three e produce Three... Extremes, due horror equamente ripartiti tra nazioni dell'Estremo Oriente (Corea, Tailandia e Hong Kong nel primo, Corea, Giappone e Hong Kong nel secondo). Si spinge addirittura a produrre un titolo coreano tout-court come il pregevole One Fine Spring Day di Hur Jin-ho, individuando nel secondo film del talentuoso Hur un continuatore della tradizione melò hongkonghese e di tematiche care alla poetica dello stesso Chan. Infine, dopo l'esperimento coraggioso e riuscito, benché non privo di difetti, del musical in Perhaps Love, Chan sceglie di confrontarsi a livello creativo e produttivo con l'unico genere sin qui mai trattato, ossia il wu xia pian. Quel che accomuna gli ottimi The Warlords e Bodyguards and Assassins - solo prodotto da Peter, ma assai "sentito" - è un chiarissimo progetto: rinverdire i fasti del wu xia con ingenti capitali della Cina continentali ma senza ricorrere alle ibridazioni del fantasy, con eroi e villain capaci sì di gesta incredibili ma senza che si allontanino mai da uno status di profonda umanità. Il rapporto che lega i tre “fratelli” di The Warlords si basa sui presupposti che uniscono (o dividono) gli uomini comuni più che i supereroi volanti, proprio come avviene nell'eroico sacrificio collettivo nel nome della libertà di Bodyguards and Assassins. Wu xia in odore di realismo, in cui ritrovare sentimenti more human than human, per dirla con Rob Zombie. Compimento dell'ennesima scommessa (vinta) di Peter Chan è proprio quel Wu Xia (titolo internazionale Swordsmen) presentato al Festival di Cannes 2011, la cui ambizione è percepibile già nel fatto che il titolo stesso sussuma il genere. All'alba dei cinquant'anni Peter Chan Ho-sun ha ancora voglia di riscrivere le regole del cinema di genere, di confrontarsi con una tradizione imponente e di uscirne con qualcosa che sia nel contempo rispettoso e innovativo; di realizzare qualcosa con cui ognuno debba misurarsi di lì in avanti. Assistere all'ennesima sfida lanciata da Peter Chan è un enorme privilegio.

 

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