Tony Leung Hung-wahPoche chiacchere, e dritti al sodo. Così si potrebbe riassumere il pensiero di Leung Hung-wah, tuttofare dell'industria cinematografica hongkonghese che negli ultimi anni ha invaso il mercato con miriadi di pellicole no-budget. Ricalcando dal basso (da molto in basso, verrebbe da dire) le strategie di Wong Jing - più di un progetto in contemporanea, una schiera di collaboratori fissi e la regia dei progetti migliori - la furia imprenditoriale del nostro si concretizza in decine di film risicati, svogliati, che sfruttano un filone con malcelata furbizia e cercano di portare a casa un qualche minimo profitto.
L'inizio come sceneggiatore di commedie (spesso dai toni orrorifici) non lascia certo il segno; gli affari iniziano ad ingranare quando passa alla pianificazione e alla produzione, riuscendo a dare una sua impronta alla maggior parte dei prodotti finiti. Finanzia e scrive l'ennesimo categoria III di Herman Yau (Taxi Hunter), patrocina l'esordio alla regia di Anthony Wong (New Tenant), fino ad approdare alla regia nel 1996 con Mystery Files. Da questa data è un crescendo di ambizioni deluse. Un Cat. III senza speranza, spoglio, noioso e - quel che è peggio - senza sangue (A Lamb in Despair). Una serie di horror che sognano di clonare le atmosfere - ma soprattutto il successo - del giapponese Ring; dai due Wicked Ghost, sbiadite copie senza nulla da aggiungere e con molto da togliere, alle atmosfere malsane ma sbroccate di Sound from the Dark. Le puntate nel noir/poliziesco non sono da meno, negli anni della Milkyway e dei suoi capolavori. A Game of No Rule, quattro scapestrati che cercano di raccimolare i soldi per fuggire da Hong Kong, si perde in rivoli di non-senso. Guilty or Not, un uomo invitato da un vecchio amico nella sua lussuosa villa che entra in un vortice di perdizione dal quale sarà difficile uscire, è soporifero e ridondante. Fino a quel Ransom Express che potrebbe anche essere divertente, non fosse una spudorata fotocopia di Lola corre privato di ogni parte innovativa; lei corre, corre, ma il film non evolve, intrappolato in un loop senza via d'uscita.
Naturalmente non tutto è da buttare. Return to Dark, per esempio, pur accozaglia di citazioni e deja vu da altre pellicole, ha un finale denso e sanguigno, persino poetico nel suo nichilismo; o Vampire Controller, horror in costume col ritorno di arti marziali e vampiri saltellanti, nonostante l'assenza totale di soldi, è una girandola di commistioni e trovate come non si vedeva da tempo.
Per riassumere, caratteristiche comuni e (a quanto pare) imprescindibili: location povere e raffazzonate, attori che ritornano da una pellicola all'altra (da Anthony Wong ad Alice Chan), regia approssimativa ma nervosa (per una volta, in senso positivo), copioni frettolosi. Perché Tony Leung Hung-wah sarebbe anche in grado di scrivere qualcosa di decente: i suoi soggetti hanno sempre qualcosa di interessante (uno spunto, un'invenzione, un non-so-che che li distingue), ma sono annacquati in sceneggiature (sempre che esistano) pedisseque e incoerenti. Stesso discorso per la regia; sotto la filigrana del raccogliticcio si intravede un'idea generale, una sorta di disegno, ma rimane incompiuto, solo pensato. Come a dire... se invece che dieci progetti ne pensasse uno, se invece che in pochi giorni girasse almeno per qualche settimana, se invece che con una mano dirigesse con due, allora e forse un qualche prodotto soddisfacente potrebbe venir fuori.
Se, appunto.

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