Seven SwordsCina, 17° secolo. L'Imperatore emana un editto secondo cui le arti marziali sono fuorilegge e chi le professa deve essere giustiziato. Immediatamente si scatenano i cacciatori di taglie, a partire dal perverso Vento di Fuoco; in soccorso di un villaggio minacciato dagli assassini accorrono degli eroi scesi da Mount Heaven, Sette Spade che si ergeranno in difesa degli oppressi.

Anche non fossero proprio sette le spade dell'epos di Tsui Hark (storia tratta dal testo Seven Swords of Mount Heaven di Liang Yu-shen), la memoria andrebbe comunque a I sette samurai di Kurosawa e a I magnifici sette di Sturges, ovvi padrini del wuxia più contaminato dal western che si sia mai visto. L'ossessione per i cavalli e i deserti sterminati, le riprese principalmente girate in esterno e dominate dalla presenza del sole lasciano pochi dubbi sull'intento di Tsui; d'altronde non è un mistero l'amore del regista per il cinema di Ford e Peckinpah e il climax drammatico più sentito, tra i vari abbandoni e pianti che si susseguono durante il film, rimane non a caso il momento in cui Han deve abbandonare il suo cavallo, a cui peraltro viene regalata una memorabile inquadratura al tramonto.

Se da un lato l'idea era quindi di girare un Eastern, dall'altro il malcelato intento era quello di rispondere all'uso estetizzante del wuxia nelle produzioni di Zhang Yimou e Ang Lee, riportando i duelli alla crudezza delle lame contro le carni e riducendo al minimo il ricorso al wirework. Tsui sceglie quindi di affidarsi al meglio sulla piazza: affida a Donnie Yen la parte di Chu, il personaggio più affascinante dei sette paladini, mentre scomoda addirittura l'anziano maestro Lau Kar-leung – incarnazione stessa del gongfu al cinema – per Fu, guida spirituale del gruppo. I duelli tengono botta, raggiungendo l'eccellenza nella resa dei conti tra Chu e Vento di Fuoco, quando i due sono costretti, dalla strettezza del budello in cui si trovano, a inseguirsi camminando sulle pareti.

Dove Seven Swords scricchiola e finisce per prestare il fianco alle – troppe – critiche piovutegli addosso (acuite dal prestigioso ruolo di film d'apertura della Mostra di Venezia 2005 assegnatogli da Marco Muller) è nella componente di approfondimento psicologico e sviluppo delle storie d'amore, entrambi elementi abbozzati e affrontati in maniera poco convinta, tanto nella versione ridotta che in quella integrale di due ore e mezza. Eccezion fatta per la misteriosa relazione che si instaura tra Chu e il personaggio di Kim So-yeon, ambedue coreani oppressi con un passato in cattività, le altre dinamiche interpersonali restano sostanzialmente inconsistenti, come discutibili sono la colonna sonora o i tratti eccessivi e caricaturali con cui sono ritratti i villain, sorta di incrocio tra i banditi di Mad Max e i cattivi del wrestling.

Con ciò, nonostante gli indubbi difetti, spesso figli di un'ambizione genuinamente eccessiva, Seven Swords è il segno di un coraggioso ritorno al gigantismo di uno dei registi che ha creato il cinema di Hong Kong come oggi lo conosciamo, dimostrando in ogni occasione di poter mettere in discussione limiti - che i più spesso si autoimpongono - apparentemente insormontabili con spirito anarchico e avventuroso. Spirito che rivive in Seven Swords e che costituisce ragione sufficiente per ritenerlo un momento fondamentale nella cinematografia di Tsui e dell'ex-colonia nella sua totalità.

 

Hong Kong/Cina, 2005
Regia: Tsui Hark
Soggetto/Sceneggiatura: Tsui Hark, Cheung Chi-sing, Chun Tin-nam, dal testo di Liang Yu-shen
Cast: Donnie Yen, Leon Lai, Lau Kar-Leung, Charlie Yeung, Lu Yi.