Introduzione
di Matteo Di Giulio

Come ogni anno, il Far East Film Festival (24 aprile - 1 maggio) si conferma l'appuntamento per antonomasia per gli appassionati di cinema Infernal Affairsorientale. La cortesia e l'atmosfera rilassata sono il miglior contorno per le decine di pellicole da visionare nell'accogliente Teatro Giovanni da Udine. Purtroppo è stato anche l'anno delle polemiche dovute alla SARS, con sgradevoli picchetti popolari anti-festival, riunioni della giunta regionale che ha provato a guastare la festa e, come misura precauzionale, l'annullamento della partecipazione degli ospiti cinesi, hongkonghesi e thailandesi. Salta di conseguenza anche una delle retrospettive annunciate, incentrata sul regista Jeff Lau, che anche per suoi impegni improrogabili (era proprio in quei giorni sul set del suo nuovo film) ha dovuto rinunciare al viaggio in Italia. Nessun problema per gli ospiti coreani, filippini e giapponesi: due dei registi omaggiati, Ishii Teruo e Hirayama Hideyuki, hanno tenuto banco con simpatia sul palco e negli incontri stampa.Passiamo subito ai premi, croce e delizia di ogni edizione. L'ha spuntata Infernal Affairs di Andrew Lau e Alan Mak, un noir interessante, segnale positivo da parte del cinema hongkonghese in crisi, seguìto di misura dal blockbuster buonista The Way Home, curioso esempio di ricettibilità universale di certi valori positivi, e da Shangri-La di Miike Takashi, che ha diviso gli appassionati del grande regista. Il piccolo rammarico è che alcuni exploit di enorme rilievo, Sympathy for Mr. Vengeance di Park Chan-wook , Just One Look di Riley Yip (snobbato anche ai recenti Hong Kong Film Award), Dark Water di Nakata Hideo e PTU di Johnnie To (introdotto da un esclusivo messaggio in video del regista), non siano riusciti a raccogliere quanto avrebbero meritato. Il redivivo horror day ha catalizzato la maggiore presenza di pubblico (in calo rispetto alle passate edizioni, proprio a causa del problema SARS) e i maggiori entusiasmi, anche nei confronti di filmetti derivativi troppo facili (il coreano The Phone, grande successo in patria e già osannato da diversi festival specializzati, come Bruxelles, o il giapponese Ju-On: The Grudge, passato doppiato su Tele+). Rispetto agli anni passati, si ha la sensazione di un leggero calo della cinematografia sud coreana (anche se alcune lacune dei selezionatori, soprattutto in campo mélo - come Lover's Concerto, L'Abri e Over the Rainbow -, avrebbero potuto testimoniare in tutt'altro senso) e di una leggera risalita di quella hongkonghese, che alterna prodotti di qualità superiore alla media a piccoli film commerciali non meno interessanti. La Cina si conferma materia di studio difficile, troppo costretta dall'invasività del potere pubblico, dalla censura e da un intellettualismo ingenuo per potersi esprimere a livelli importanti. Thailandia, Filippine e Singapore, rappresentate da un solo film ciascuna (e non il migliore), non lasciano il segno.
Discorso diverso per il Giappone, il solito mare magnum da cui è facile pescare perle e autori da rivalutare:
quest'anno l'onore è toccato a Ishii Teruo, maestro dell'ero-guru e alfiere di un cinema personale e barocco, anche troppo originale e libero da restrizioni, sempre in grado di far parlare di sé. L'apertura con Porno Period Drama: Bohachi Bushido è stata un mezzo shock, per l'eleganza della realizzazione in Just One Lookcontrasto con la gratuità di nudi e torture. Nella cornice delle major, Ishii, una filmografia sterminata in tante decadi di carriera, dimostra di saper lavorare sui generi - il noir, soprattutto, e l'erotico a base di eccessi -, e di aver sviluppato una propria poetica che mescola sapori contrastanti, come nel caso delle sue ultime regie, tratte da popolari manga, The Master of Gensekan Inn e The Wind-Up Type. Hirayama Hideyuki, attivo fin dai primi anni novanta, è stato oggetto di una mini-retrospettiva molto interessante. Out, candidato per il Giappone all'ultimo premio Oscar, ha deluso rispetto ai primi lavori, soprattutto l'intrigante e teatrale A Laughing Frog. Qualche pellicola in più di una filmografia comunque corposa avrebbe aiutato a capire meglio il reale spessore del regista. E' stato anche, di traverso, il festival di Miike, presente con due ottimi lavori, Graveyard of Honor, fedele remake di uno splendido yakuza eiga di Fukasaku Kinji, e Shangri-La, curioso cambio di registro rispetto ai truculenti noir a base di gangster a cui l'autore ci aveva finora abituato.
Anche per il cinema della Corea del Sud il FEF rimane una vetrina da non perdere. Il tributo a un periodo storico, a cavallo tra anni cinquanta e settanta, la cosiddetta Golden Age, è un importante passo per avvicinarsi a un passato ancora del tutto sconosciuto. Derivativo ma vitale, rozzo nella forma ma intrigante nella sostanza, il vecchio cinema coreano pone le basi ai generi di oggi: il mélo (MIST, il cinico The Student Boarder), il thriller (The Housemaid, The Evil Stairs) e l'horror (Public Cemetery Under the Moon)
. Meglio il passato del presente, probabilmente, per via di alcune illustri delusioni (in special modo Jail Breakers dell'apprezzato Kim Sang-jin, ma anche l'asfittico A Perfect Match di Mo Ji-eun; entrambi erano presenti come ospiti), e, anche se non sono mancate le sorprese sbucate fuori dal nulla, o quasi (la teen-comedy scollacciata Sex Is Zero; l'appassionante bildungsroman sentimentale Conduct Zero), e il capolavoro inarrivabile (il succitato Sympathy for Mr. Vengeance), la qualità media, soprattutto a livello blockbuster (l'orribile Yesterday, che conferma la scarsa capacità dei coreani di coniugare azione, spettacolarità e budget imponenti) si è abbassata.Hong Kong risale lentamente, e il dato positivo è che dimostra di essersi ripresa dalla spersonalizzazione sfrenata - in favore di inutili ammiccamenti, spesso dettati da ragioni economico-produttive, a Stati Uniti e Giappone - che ne aveva contagiato il passato più recente. Shark Busters, Frugal Game (che guarda alle vecchie commedie della Cinema City degli anni ottanta), The Stewardess, il nostalgico Just One Look hanno il grande pregio di essere film pensati, scritti e realizzati secondo le esigenze del pubblico locale. Il mercato è economicamente al minimo, per via della pirateria e della SARS, e molti produttori abbandonano la pellicola per il digitale, preferendo talvolta l'uscita diretta in vcd e dvd. Con il materiale (in termini di budget, non certo di attori o di registi) a disposizione - eccezion fatta per il pompatissimo Infernal Affairs - era difficile fare meglio.
Come sempre, gli organizzatori del CEC pensano già al futuro e promettono scintille con una imponente rassegna dedicata proprio al cinema di Hong Kong. Vista la chiusura affidata a un capolavoro - restaurato e rimasterizzato - di Chang Cheh, il seminale wuxia The One-Armed Swordsman, e visto il trend iniziato a Hong Kong dalle ristampe di tanti classici (soprattutto i film di Shaw Brothers e Cathay, ma anche le commedie degli anni ottanta) per il mercato dell'home video digitale, si può sperare in un passo in questa direzione?