ElectionQuello che forse è il film più gelido e spietato di Johnnie To si insinua sottopelle, senza chiasso né concessioni allo spettacolo. Niente omaggi sopra le righe alla Exiled, niente pianisequenza alla Breaking News, niente neon da tragedia epica come in A Hero Never Dies. Election, evidentemente concepito come primo di due capitoli, è l'analisi meticolosa e rigida del sistema-triadi nel suo farsi e perpetuarsi: una società nella Società di cui quest'ultima non può – a prescindere di quanto effettivamente voglia – fare a meno.

L'impotenza di David Chiang nei panni del sovrintendente di polizia è quella di Ness de Gli Intoccabili con l'ombrellino aperto, la devozione con cui il consesso di sgherri e sicari recitano la parola «Padrino» in uno scantinato è quella di Clemenza che bacia le mani a Michael Corleone, investendolo e nel contempo palesandolo alla moglie ignara. Anche qui la famiglia è strettamente legata alle vicende dei boss candidati, come dimostra il climax dell'indimenticabile scena di pesca, teatro di violenze ancestrali sotto gli occhi dei parenti più prossimi e dei più remoti in assoluto, alcune scimmiette agitate che testimoniano il ritorno kubrickiano alla natura primordiale dell'Uomo. Legami di sangue spezzati alla maniera dell'Antico Testamento, senza un colpo di pistola e senza il minimo preavviso. Le giacche sgargianti di Big D (Tony Leung Ka-fai) non ingannino, sono solo l'epifenomeno della modernità di una vicenda che de facto rimane assolutamente fuori dal tempo: il potere regola le sue successioni con il sangue, oggi come ieri, nelle triadi come nella giovane Inghilterra dei Lancaster e degli York, seguendo un codice d'onore puntualmente disatteso (e Lok-Simon Yam stesso lo dimostrerà nel secondo capitolo). O passando per il feticcio di un bastone, perché (anche) di apparenza ci si deve servire per incutere il dovuto timore reverenziale; senza uno scettro molti tra i re non sarebbero stati che lestofanti qualsiasi, d'altronde. Mettendo in scena il suo personale omaggio alla saga di Il Padrino, To allestisce anche il suo massimo pamphlet politico della carriera. Con obiettivo duplice: la Cina che avanza con le sue inquietanti meccaniche di potere (Election 2 espliciterà il discorso) e il cancro inestirpabile delle triadi, parte integrante della storia cinese che invecchia sì ma non muore mai. Niente più eroi con cui identificarsi e sognare come Jack e i Martin, o improbabili operai del crimine come quelli di The Longest Nite. Solo uno stagno per lavare le mani dalle nostre nefandezze e a cui abbeverarsi per placare la nostra inesauribile sete di potere. [Emanuele Sacchi]

Wo Sing, una delle triadi più antiche, necessita, per i prossimi due anni, di un nuovo leader, un capo che sappia amministrare le ricchezze rastrellate coi biechi mezzi dell’estorsione e della violenza, che gestisca e sovrintenda coi lumi distorti di un vero capo mafia. Big D e Lam Lok sono al centro della disputa, i due fuochi su cui i capi mandamenti intendono puntare per la direzione dei loro traffici.
Due caratteri differenti, due personalità opposte che si muovono con i modi che ritengono più opportuni: mentre Lok confida nella sua prudenza e ponderatezza nel recuperare voti, Big D si ingegna, con la rabbia che gli è propria, a esercitare sui votanti lo strumento a doppia lama, sempre utile in questi casi e ambienti, dell’intimidazione e della coercizione. L’anziano Teng Wai tesse la tela della discussione tra i boss e giunge alla conclusione che Lok sia la scelta migliore, proprio nel momento in cui la polizia decide di intraprendere una retata sull’intera organizzazione. Le congiure non conoscono tregue e da dietro le sbarre Big D continua nella sua strategia. Muovendosi su due fronti, tenta dapprima di recuperare il Baton, una specie di scettro, di Santo Graal, capace di infondere un rispetto quasi sacro in chi lo detiene, quindi impone a Teng Wai la sua nomina col ricatto di formare una nuova triade. Tra discussioni e minacce tra faide rivali, Big D è ricondotto alla ragione, al rientro tra i ranghi, nell’accettazione di Lok come nuovo vertice di Wo Sing. Il peggio sembra scongiurato, l’organizzazione salva, le pedine al loro posto. Ognuno accetta il suo ruolo, o così sembra che sia, fino a un momento prima del violento finale.
Election è appiattito sulla pietra angolare da cui dovrebbe erigersi: Yip Tin-shing, già alle prese con Breaking News, e Yau Nai-hoi, nobilitato dai precedenti A Hero Never Dies e The Mission, costruiscono una sceneggiatura schiacciata e senza rilievi. Johnnie To vuole mostrare i meccanismi interni di una società mafiosa cinese, i suoi sistemi, i controlli e ancor più la sua storia, fino a tornare indietro di 300 anni, raccontando l’epoca dell’impero della Manciuria e dei monaci Shaolin. Prosciuga il film dall’azione e muove la macchina da presa solo per filmare le trame che i vari boss concepiscono per la sopravvivenza della famiglia. La parola si sostituisce alla pistola, tanto da non scorgerne una per tutta la durata della pellicola, in una sorta di piccola saga stile Il padrino orientale, senza però un Mario Puzo a sorreggerla nella scrittura. I personaggi restano effimeri ed evanescenti, fluttuanti tra le righe di un testo che non è in grado d’imprimerli nella memoria dello spettatore. Così in mancanza di un’idea precisa, di un tracciato lineare, il film si muove come perso nel bosco della confusione, di ciò che non si vuole, di insicurezze, tentennamenti, procedendo ora in un senso, ora in un altro, per poi in definitiva non spostarsi di un passo, non lasciare una traccia degna di un ricordo. In questo caso, una virgola. [Alberto Ferrari]

Hong Kong, 2005
Regia: Johnnie To
Soggetto / Sceneggiatura: Yau Nai-hoi, Yip Tin-shing
Cast: Simon Yam, Tony Leung Ka-fai, Lam Suet, Louis Koo, Wong Tin-lam

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