My Heart Is that Eternal RoseSi apre su un mazzo di rose e si chiude nel sangue, come un mélo intrecciato con il noir. È la fine degli anni 80 quando Patrick Tam gira il suo heroic bloodshed, sulla scia del successo di A Better Tomorrow di John Woo. Ma My Heart is That Eternal Rose - la frase viene da Artaud - non potrebbe essere più distante dallo stile e dall'intento del regista di The Killer (che uscirà a breve distanza dal film di Tam), nonostante la presenza copiosa di sparatorie e ralenti.

Entrambi gli elementi, infatti, nella visione di Tam assumono un differente significato: la tempesta di piombo è concentrata in pochi e rapidi minuti, senza estensioni artificiali dello shootout finale; i ralenti, invece, sono usati per dilatare le emozioni e catturarle, al pari del fermo immagine (Tony Leung che alza le mani), dello zoom (il volto di Joey Wong quando apprende della morte del padre) o dei giochi di specchi (i riflessi del padrino Shen, ambigui come la sua sfuggente personalità). Le ricercate inquadrature di Tam ribaltano i punti di vista e trasmettono messaggi subliminali: non vediamo Lap piangere, vediamo tremare la sua immagine riflessa in una bacinella. Di fronte alla possibilità di veicolare un'emozione o un messaggio Tam sceglie la via meno consueta e più cinematografica. La combinazione di montaggio e di fotografia, affidata a Christopher Doyle, conduce verso abbacinanti soluzioni visive, che trovano l'apice in sequenze di rara intensità emotiva (su tutte, Rick che trattiene per un braccio Lap mentre lei si gira al rallentatore, scuotendo i suoi capelli).

Ritorna la gioventù perduta e fuoriposto di Nomad, ritorna il destino baro di Final Victory, che sembra osservare - attraverso continue plongée - le sfortunate coincidenze che colpiscono gli amanti. Fino alla inevitabile resa dei conti, che guarda a Peckinpah ma chiude nei toni del mélo di Hong Kong. Tam, insoddisfatto per l'esito del film e per le condizioni di lavoro nell'industria cinematografica hongkonghese - la scena finale, che svela il destino di un personaggio, frutto di pressioni da parte della produzione - abbandonerà la regia per un esilio volontario dalle scene, interrotto solo nel 2006 con After This Our Exile.

(Emanuele Sacchi, 2018)

My Heart Is that Eternal Rose 2La prego, signor Tam, torni a dirigere un film... se ne sente urgentemente il bisogno!
Sì perché, in un periodo di stasi del cinema hongkonghese come quello attuale (anche se va già meglio rispetto ad un paio di anni fa), il ritorno dietro la macchina da presa del «maestro di Wong Kar-wai» (di cui aspettiamo ardentemente l'ultimo 2046) sono convinto porterebbe una ventata di creatività sicuramente propizia.
Speranze a parte però, l'ultimo lavoro di Tam è datato ben 1989 e, almeno per chi scrive, si gioca la palma di miglior film dell'anno niente meno che con il giustamente osannatissimo (e ormai classico) The Killer.

E col capolavoro di John Woo presenta non poche similitudini: anch'esso infatti è un action-mélo a basso budget ma a grandi idee, con la componente melodrammatica decisamente in primo piano (un ragazzo e una ragazza si amano ma devono separarsi ed il loro reicontro porterà alla tragedia) che però non trascura certo il lato puramente adrenalinico della vicenda.
Le coreografie ed il montaggio delle scene d'azione sono estremamente curati (e non mi sorprende: ricordiamoci che Tam ha montato un film caotico e complesso come Ashes of Time!) e producono un effetto di grande impatto drammatico (vedi ad esempio la scena alla stazione di servizio, che porta al climax della prima parte del film, e tutto lo statico ma incredibilmente dinamico finale).
Fra gli attori, più che i due innamorati (Kenny Bee e la bellissima Joey Wong, interprete anche della commovente canzone-tema portante e ricorrente), svettano le prove dei non-protagonisti: un feroce Chan Wai-man nel ruolo ormai collaudato (ma a quei tempi non ancora) del boss mafioso, un sorprendentemente folle (Gordon) Liu Chia Hui (bravo sia col parrucchino che senza...) ma soprattutto il giovane e già carismatico Tony Leung Chiu-wai… testimone volontario (nonché indirettamente partecipe) della disputa che ha come centro focale Joey Wong, il quale sceglie istintivamente di schierarsi contro il suo capo e di seguire ciò che gli dice il suo cuore tormentato ma finalmente libero. La scena in cui bacia Joey Wong sotto gli occhi allibiti del fidanzato e poi si allontana per andare incontro al suo destino fa venire letteralmente i brividi.
Grazie ad un uso abbondante ed efficace del ralenti, ad una fotografia che mischia abilmente tonalità calde e glaciali (il nome di Chris Doyle vi dice niente?), ad una colonna sonora (punto di forza di tutti i lavori di Tam) che va a braccetto con le immagini e di cui ne eleva la carica emozionale, e ad alcune scene d'antologia (non a caso citate spesso in documentari a tema, uno per tutti Cinema of Vengeance di Toby Russell), My Heart Is that Eternal Rose si colloca senza timori reverenziali vicino alle migliori opere di John Woo, Ringo Lam o Kirk Wong (solo per citare i registi più famosi) e costituisce un tassello essenziale per la crescita stilistica del cinema di Hong Kong di quegli anni (leggi periodo d'oro).
A quando il prossimo film, Signor Tam?

(Gianpiero Mendini, 2003)


Hong Kong, 1988
Regia: Patrick Tam
Soggetto / Sceneggiatura: John Chan, Tsang Kan-cheung
Cast: Kenny Bee, Joey Wong, Tony Leung Chiu-wai, Chan Wai Man, Gordon Liu

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