A Better Tomorrow IIIAlla coppia Tsui Hark (produttore) / John Woo (regista) - senza dimenticare il terzo incomodo: Chow Yun Fat (attore) - si devono alcuni dei momenti migliori del poliziesco di Hong Kong. Con i primi due A Better Tomorrow Woo e Tsui ridefiniscono i canoni del noir mescolando le carte e ibridando diversi umori senza soluzione di continuità: in particolare azione spericolata e mélo struggente. Sul set del secondo film iniziano le divergenze: il produttore, reo di essere eccessive ingerenze, si mette in proprio. Prese strade (solo parzialmente) differenti i due si cimentano con i progetti covati da tempo: Woo realizza Bullet in the Head, mentre Tsui decide di riproporre il personaggio interpretato da Chow Yun Fat in un prequel al femminile, A Better Tomorrow III (sottotitolo: Love and Death in Saigon), meno eroico e decisamente più pessimista.

Alla scoperta della giovinezza irrequieta di Mark Gor, l'eroe dal look inconfondibile - fiammifero in bocca, spolverino e occhiali da sole -, icona popolare imitata per le strade dai ragazzini, il regista intreccia un complesso arabesco sociale, ambientato in una Saigon glaciale e dominato dalla figura della sanguigna Kit (Anita Mui, grandissima e sensuale, si mangia tutti i compagni di set in un sol boccone), pasionaria che inizia Mark alle armi.
Cast di primissimo piano - bravo come sempre Chow, al suo fianco ci sono un altrettanto valido Tony Leung Ka-fai, lo sceneggiatore Nam Yin e il grande cattivo del cinema cantonese Sek Kin -, realizzazione esasperata (l'eccellente montaggio a sei mani, la fotografia contrastata di Horace Wong), dove lacrime e sangue coincidono: ne è l'apice emotivo il doloroso finale con la dolcissima canzone (Song of Dusk dell'esperto compositore Lowell Lo, cantata dalla stessa Mui) che cala il sipario nella commozione collettiva. Eliminati i riferimenti cattolici tipici di Woo, Tsui va maggiormente in profondità e realizza un capolavoro. Paradossalmente alza il tiro rispetto alle meno originali vicende di triadi dei prototipi: il parallelo politico tra il Vietnam degli anni '70 e Hong Kong, appena scossa dai fatti di piazza Tienanmen, poco prima del temuto handover, è impietoso, da pelle d'oca, urlato in faccia al pubblico. In un colpo solo la pellicola coniuga profondità di intenti e spettacolarità assoluta, mettendo a disposizione della platea materiale di prim'ordine su cui riflettere; e al tempo stesso un numero sufficiente di coreografie, morti e sparatorie per farsi coinvolgere anche solo a livello superficiale. Epico punto d'arrivo di un'intera generazione - la seconda New Wave di metà anni '90 e il cosiddetto heroic bloodshed - e, proprio insieme a Bullet in the Head, chiusura ideale, la migliore possibile, dell'impeto artistico che ha reso Hong Kong negli anni '80 il paradiso per gli amanti del cinema (poliziesco) moderno. Due curiosità a margine: la splendida colonna sonora è in parte riciclata da quella scritta sempre da Lo per The Big Heat; la versione taiwanese è molto più lunga di quella uscita nei cinema a Hong Kong.

Hong Kong, 1989
Regia: Tsui Hark
Soggetto / Sceneggiatura: Leung Yiu Ming, Dai Foo Ho
Cast: Chow Yun Fat, Anita Mui, Tony Leung Ka-fai, Tokito Saburo, Sek Kin

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