A Fighter's Blues Ci sono una thailandese, un cinese e una giapponese. Non è una barzelletta, anche se, a conti fatti, A Fighter's Blues di Daniel Lee appare più come uno sberleffo di cattivo gusto, soprattutto per chi si aspettava un segno di riscossa dopo il flop, di pubblico e di critica, dell'orribile Moonlight Express. Lee conferma la sua scelta di abbandonare definitivamente le velleità di una politica autoriale di tutto interesse (Black Mask, Till Death Do Us Part) pur di mettersi al servizio di una star e creare su misura un veicolo commercialmente affidabile.
Con il passaggio alla Teamwork di Andy Lau le cose peggiorano: il produttore commissiona al talentoso direttore l'ennesima agiografia, e si fa immortalare nei panni di un boxeur che da Hong Kong ritorna in Thailandia per un viaggio di espiazione e redenzione. Il passato di quello che solo una decina di anni prima era un campione sul ring è macchiato da un errore che lo ha portato, in un solo momento, a perdere amore e libertà. Grazie all'entusiasmo di una bella ragazza - giapponese, per soddisfare l'orgoglio dei finanziatori nipponici: è ancora una volta l'attrice Tokako Tokiwa, inebetita come nel precedente Moonlight Express - e di una figlia di cui non conosceva l'esistenza, l'uomo si immola - in maniera francamente stupida, anche se gli sceneggiatori (tra cui spiace leggere il nome di Cheung Chi-sing) vorrebbero farlo passare per un gesto metaforicamente eroico - per ottenere il perdono di coloro che a suo tempo ha ferito.
Sulla falsariga dello Stallone più muscoloso (Rocky e Over the Top, citati di continuo nella retorica generale), Andy Lau riserva - pretende? - per sé l'intero palcoscenico per cento e passa minuti. E come al solito esagera nel caratterizzare un anti-eroe selvaggio, ignorante ma di buon cuore. Manca il lieto fine, e non è un male, ma mancano anche le emozioni, ed è un difetto su cui non si può soprassedere. Patinato e costruito attorno a un protagonista mal caratterizzato, A Fighter's Blues è la peggiore prosecuzione possibile di un potenziale autore caduto in asettica disgrazia. Al servizio di un ideale che, si vede, Lee non sente come proprio, il regista preferisce evitare la prima persona e spersonalizzare il discorso da ogni partecipazione emotiva: ne risulta un'opera fredda popolata da burattini senz'anima, ennesima dimostrazione che per fare buon cinema non occorrono solo sterile competenza tecnica e location esotiche.

Hong Kong, 2000
Regia: Daniel Lee
Soggetto / Sceneggiatura: Cheung Chi-sing, Daniel Lee
Cast: Andy Lau, Tokiwa Tokako, Chan Wing Chung, Intira Jaroenpura

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