A Touch of Zen

Da una storia di Songling Pu, scrittore di fine ‘600 prediletto dal regista, autore di racconti di fantasmi. Hu però costruisce un film in cui gli elementi fantasy svaporano ben presto: la casa infestata è risolta con ironia come un tunnel degli orrori da luna park. In un altro momento gli spiriti si rivelano essere dei fantocci, all’interno di una messa in scena architettata per spaventare i nemici.
A ben vedere il film si mantiene nei limiti del “fantastico strano” di Todorov, gli eventi possono avere una spiegazione razionale. Un personaggio del film afferma: «Confucio dice che non esistono i fantasmi». Quello che interessa a Hu dell’immaginario di Songling Pu non è la ghost story ma la rievocazione dell’epoca Ming, dove si incrociavano Confucianesimo, Buddhismo e Taoismo. Il suo obiettivo è rendere al cinema il concetto buddhista, inesplicabile e indefinibile, di chan (conosciuto in occidente con il termine giapponese zen), attraverso la mediazione del principio taoista wuwei zheren, la capacità di percepire intuitivamente la vera essenza delle cose.

Nella parte finale compaiono dei monaci shaolin, dallo spirito profondamente pacifista, che intervengono a risolvere spesso le situazioni, fungendo così da deus-ex-machina, o da “Buddha-ex-machina”. L’atmosfera si pervade di misticismo, con scene dai colori virati, un po’ come quelle del trip allucinatorio di 2001: Odissea nello spazio, o con i raggi di luce che filtrano dalle fronde degli alberi. E l’ultima scena mostra un monaco seduto, la cui silhouette combacia con quella dell’iconografia classica del Buddha. E’ una trasfigurazione, il raggiungimento dello stato di satori, l’uomo che diventa Buddha.
A Touch of Zen
è il capolavoro di King Hu, la cui lavorazione ha richiesto ben due anni. Una delle sue opere costruita interamente in esterni, con maestosi paesaggi, montagne, foreste, boschi di bambù, deserto. Memorabili i momenti di combattimento, opera del suo braccio destro, il coreografo Han Yingjie, dalla straordinaria grazia e leggiadria. In essi la forza propulsiva e la sospensione della gravità sono resi attraverso il montaggio costruttivista, di cui Hu era maestro, che consiste nel mostrare velocemente dettagli dell’azione con riprese brevissime, che il pubblico deve assemblare mentalmente.
A Touch of ZenLa vicenda ha inizio con l’arrivo di un forestiero nel villaggio, un incipit tipico da western - genere che, insieme al chanbara giapponese - confluisce naturalmente nel wuxia di King Hu; basta pensare ai suoi tempi dilatati alla Peckinpah. Ma Hu aggiunge una buona dose d’ironia: in fondo tutto inizia con la storia di un single da ammogliare. Nel rapporto tra i sessi l’uomo è in posizione inferiore: la protagonista è la tipica eroina, il modello di xia nü, la donna cavaliere errante, del cinema di Hu.
A Touch of Zen
ebbe un riconoscimento a Cannes, nel 1975, per meriti tecnici. Si dovette attendere il 1997, con Happy Together, per vedere un altro film di Hong Kong premiato sulla Croisette.

 

Hong Kong/Taiwan, 1971
Regia: King Hu
Soggetto/Sceneggiatura: King Hu, da un racconto di Pu Songling
Cast: Ying Bai, Billy Chan, Ping-Yu Chang, Roy Chiao, Hsue Han

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