Dangerous Encounter - First KindDangerous Encounter - First Kind è pellicola assolutamente centrale nella storia recente del cinema di Hong Kong. Filologicamente è uno dei casi più eclatanti di censura che l'ex protettorato britannico ricordi: nata come esplicita denuncia politica, l'opera è stata bocciata e bloccata - non prima di una proiezione al Festival di Berlino - per i suoi riferimenti troppo diretti ai disordini del 1967 e per il suo atteggiamento xenofobo (contro americani e giapponesi). Fu necessario girare nuove scene e rimontare quelle vecchie in modo da cancellare una parte della storia - tre studenti che costruiscono bombe e le piazzano ovunque - e trasformarla in un poliziesco più ordinario - i tre ragazzi investono per caso un pedone e vengono ricattati da una coetanea -, e solo l'anno dopo, nel 1981, avviene l'esordio nei cinema con il nuovo titolo Don't Play with Fire. Se pure la carica anti-sociale risulta notevolmente diminuita, il film non ha perso ardore e aggressività. La storia oggi visibile1 è quella di tre amici che iniziano goliardicamente a sfidare i limiti della società per poi travalicarli completamente grazie alla molla emotiva costituita dalla compagna che, affascinata dal lato oscuro della vita, li coinvolge in un furto dalle terribili conseguenze. I quattro sottraggono infatti ad una banda di trafficanti d'armi una preziosa valigetta contenente svariati milioni di yen, scatenando una spirale di crimini e omicidi che coinvolgeranno anche il fratello poliziotto della ragazza e alcuni avidi affiliati alle triadi. Il finale nerissimo è nel segno del massacro.
Dangerous Encounter - First Kind è un trattato sulla violenza, che nasce dalle piccole cose e per contrappasso cresce e costringe i suoi protagonisti a subirne gli effetti: la sua forza è incontrollabile, spietata la sua idea di giustizia. Tsui (con lo sceneggiatore Szeto Cheuk-hon) costruisce una compagnia mal assortita di personaggi negativi - acuendo il disagio dello spettatore, abituato ad almeno un eroe sullo schermo -, e li conduce programmaticamente all'inevitabile (auto)distruzione. L'altissimo tasso di nichilismo - contro tutti: persone, animali e oggetti - e anarchia offre l'opportunità, una volta giudicati colpevoli tutti gli interpreti, di vedere subito eseguita contro di loro la sentenza sommaria di condanna (fuori metafora il gusto per il gore che colpisce i crani delle vittime, siano essi un topo da laboratorio o una ragazza che cade dalla finestra). La politicità del prodotto sta anche nel rancore contro gli stranieri sfruttatori e stride con l'immagine per l'estero della colonia asiatica come piccola oasi felice costruita negli ultimi anni di ottimismo e economia rampante. Il regista, al terzo film, spinge il piede sull'acceleratore della violenza e non si piega ad alcun compromesso. Lo stile è fortemente debitore all'esperienza europea - Fritz Lang, da cui riprende il crudo finale nel cimitero, e in un certo modo l'espressionismo - ed è apparentemente molto semplice. Una messa in scena più sontuosa sarebbe risultata deleteria. Ovviamente un insuccesso commerciale. E' un modo di fare cinema, questo, che fa del livore la propria arma principale e che pur di non piegarsi finisce per spezzarsi. Anche per una banalità o per un dettaglio fondamentale. Sul finire degli anni settanta coraggio, coerenza e un pizzico di follia hanno consentito a un pugno di cineasti fuori dagli schemi di porre con veemenza le basi per il cinema di due decenni successivi. Un simile fervore creativo non può essere dimenticato o sminuito da versioni censurate e visioni imperfette.

Note:
1. Anche se di recente la versione director's cut, intitolata L'enfer des armes, è uscita in dvd in Francia.

Hong Kong, 1980
Regia: Tsui Hark
Soggetto / Sceneggiatura: Tsui Hark, Szeto Cheuk-hon
Cast: Ray Lui, Au Shui Keung, Lo Lieh, Lim Ching-chai, Tin Sang Lung

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