Fairy Tale Killer

Alla fine della visione di Fairy Tale Killer possiamo chiaramente percepire come, dei fratelli Pang, Oxide rappresenti il lato rutilante e spettacolare, mentre l’anima più autenticamente nera e il gusto spiccato per il tetro e il macabro appartengano al meno prolifico e più mediaticamente appartato Danny. Infatti, laddove le opere soliste del facondo Oxide sembrano incarnare l’aspetto più roboante e filo-hollywoodiano del duo, quelle di Danny restituiscono l’immagine di un cineasta che, centellinando con maggiore cura il proprio lavoro, tenta di definire una propria "cifra" (stilistica, se non propriamente autoriale), pur lavorando all’interno di codici ben precisi.

La maniera in cui i due affrontano singolarmente il genere thriller sembra confermare tale tesi: alle prese con atmosfere analoghe a quelle di Fairy Tale Killer, con il dittico The Detective-The Detective 2 Oxide non riesce a evitare di ricorrere a un armamentario retorico tonitruante e smisurato rispetto alla dimensione intima del racconto, maggiormente incentrato sulla figura del titolo e sulla sua natura di loser, che sulle indagini nelle quali è coinvolto. Fairy Tale Killer si muove in una direzione diametralmente opposta: alle prese con un soggetto dal respiro più ampio, Danny Pang Phat preferisce sottrarre e ricondurre la narrazione, e soprattutto lo stile, a una dimensione quasi esistenzialista, senza trascurare le potenzialità spettacolari dell’intreccio.

Pur salutato da critiche al vetriolo, soprattutto in ambito anglosassone, il quinto “assolo” registico di Danny Pang mostra infatti una notevole maturità di scrittura e di regia. La classica parcellizzazione dell’intreccio fra la dimensione pubblica del protagonista - un poliziotto in disarmo, impegnato in un’indagine su una serie di efferati delitti ispirati ad alcune fiabe per bambini - e quella privata - in cui egli è alle prese con una moglie rancorosa e un figlio autistico - contribuisce a collocare semanticamente la pellicola nella tradizione del post-noir, mentre un’effettistica (sia a livello visivo che sonoro) pienamente “anni Novanta” e un gusto per la svisata gore quasi fincheriano (il modello di riferimento è chiaramente Seven) imprimono al testo un’impronta marcatamente vintage, segnata da sussulti millenaristi che sembrano provenire direttamente dal cinema di due decadi fa, quando le ansie e le paure di fine millennio alimentavano una congerie di presunte “visioni apocalittiche” da parte di cineasti variamente ispirati. In questo caso la decalcomania - o l’omaggio museale, a seconda dei punti di vista - si completa con la figura del villain, un uomo mentalmente disturbato che da subito si dichiara autore degli omicidi, schiavo dei propri traumi infantili, capace di machiavelliche invenzioni, ma al tempo stesso succube e a sua volta vittima di un’altra figura misteriosa. Anche il cast è a sua volta un degno campionario di vent’anni di divismo hongkonghese: Lau Ching-wan è il detective, mentre Lam Suet aggiunge l’ennesima tacca al suo vasto repertorio di morti violente; al più giovane Wang Baoqiang, già rivelazione di Blind Shaft di Li Yang, ormai un decennio fa, tocca invece la parte del killer-torturatore.

Hong Kong, 2012
Regia: Danny Pang Phat.
Soggetto/Sceneggiatura: Danny Pang Phat, Szeto Kam-yuen.
Cast: Lau Ching-wan, Wang Baoqiang, Elanne Kong Yeuk-lam, Joey Man Yi-man, Felix Lok, Lam Suet.

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