No.7 Cherry Lane

Era stanco di avere persone attorno, Yonfan (e forse era stanco anche delle tante e spietate critiche alle quali attribuisce il suo break produttivo, durato un decennio). Era stanco al punto di riparare, per la prima volta in una carriera ultratrentennale, nel rifugio di una forma cinematografica a lui inedita, quella dell'animazione, dedicandosi per un intero lustro a questo No. 7 Cherry Lane, in concorso alla 76ª Mostra del Cinema di Venezia e lì premiato con l'Osella alla sceneggiatura (con cui il regista di Wuhan sostiene d'essersi tolto un sassolino dalla scarpa: «Mi hanno sempre detto che era la scrittura il mio tallone d'Achille!»).

Quest'impulso a dissolversi, a prender le distanze da una bolla corale, dalla magniloquenza del set, dalla concitazione sociale, si specchia nemmeno troppo sottilmente in una pellicola intimista, ripiegata sui palpiti emotivi dei tre protagonisti, sul ricordo di una giovinezza che attinge forse a quella di Yonfan stesso, che nel 1967 aveva la stessa età del protagonista, l'universitario Ziming, si trovava anch'egli a Hong Kong e nutriva già il medesimo amore per il cinema. Che nel ragazzo si sviluppa di pari passo con quella per una donna più grande, la malinconica signora Yu, in autoesilio da Taiwan dopo gli anni del Terrore bianco (un argomento su cui peraltro verteva la fatica precedente di Yonfan, Prince of Tears)..

Gli sguardi, i lenti avvicinamenti, le lacrime e i baci di Ziming e Yu si cristallizzano tra le luci del proiettore e la membrana protettiva della sala, sotto gli occhi della figlia adolescente di Yu, Meiling, che di Ziming è infatuata e che della madre, ex idealista, è l'opposto moderno, il contraltare superbo. Vertici di un triangolo autoriflessivo e meditabondo, Ziming, Yu e Meiling errano fra un rigurgito emotivo e l'altro, citazioni proustiane e suggestioni dal Sogno della camera rossa, illanguidendo dentro un'animazione che ibrida 3D e 2D, pittura tradizionale e volti da anime d'oggi, mentre sullo sfondo ribollono gli scontri fra i rivoltosi comunisti, la polizia di Hong Kong e il governo britannico. Che questo sono, e rimangono: uno sfondo, che mai (dis)turba l'imbozzolato ménage e che non è pensato, sostiene Yonfan, per suscitare un'eco con i moti odierni (a suo dire «forze bizzarre» e «sconosciute»). Dove insomma preferisce posare direttamente lo sguardo, senza ambiguità né ritrosie, è ancora una volta lo spazio psicologico e sessuale femminile, da cui scaturiscono le sequenze migliori - ipno-oniriche, un filo squilibrate e bislaccamente fuori posto - del suo (potenziale) testamento artistico.

Annettiamo due curiosi post scriptum: fra i doppiatori originali ci sono Sylvia Chang, che nel 2018 è comparsa in Long Day's Journey Into the Night di Bi Gan nel quale due amanti trovavano a loro volta conforto e vicinanza al cinema, e l'ineguagliabile Fruit Chan, che presta la voce, anzi i miagolii, non a un umano bensì a uno degli ermetici micioni instant (s?)cult del film.

 

Hong Kong/Cina, 2018
Regia: Yonfan.
Soggetto/Sceneggiatura: Yonfan.

 

 

 

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