Parlare delle donne nel cinema di Hong Kong è compito arduo non tanto per le difficoltà intrinseche in ogni discorso che vuole essere generale e compendiativo - problema pur presente - quanto per la situazione estremamente variegata e a tratti contraddittoria che offre l'industria cinematografica locale. Il sistema produttivo è infatti incentrato sulla figura degli attori, sicuramente molto più che su registi o maestranze marginalizzate come sceneggiatori e troupe tecnica1 - non è dunque un caso che proprio per la situazione hongkonghese si parli di star system. Questo significa che buona parte di strategie ed energie delle grosse case sono concentrate nella creazione di volti e personalità in grado di attrarre il pubblico, nel tentativo di garantire all'attore la sovraesposizione necessaria a innescare interesse e dunque seguito. Se questo discorso è valido sia per gli attori che per le attrici, è pur vero che la situazione in cui si trovano le attrici è ulteriormente complicata dal ruolo della donna nella società cinese (e di conseguenza nel meticciato culturale dell'ex-colonia inglese).
La posizione culturale e sociale della donna, perlomeno da quanto emerge guardando al cinema, pare allora dibattersi tra due anime, non Behind the Yellow Linenecessariamente in contraddizione quanto in difficile convivenza su piani che si intrecciano senza soluzione di continuità. Se da un lato la donna appare marginalizzata, dall'altra sono indubbie le aperture a un modo altro di intendere il rapporto tra i generi sessuali.

UN MONDO PER SOLI UOMINI?

Di primo acchito, la funzione ricoperta delle attrici non è poi molto diversa da uno stereotipo ben desolante eppure sempre valido - di qualsiasi latitudine si parli; quello dalla donna come oggetto del desiderio, messo in mostra in funzione dell'intreccio basato su personaggi quasi esclusivamente maschili. In questo ruolo conta solo la presenza fisica e una qualche (minima) dose di autoironia - rendendo il femminile una semplice variabile facilmente sostituibile e rimpiazzabile. Miriadi di attricette con poche pretese e molte speranze sono prese e fagocitate dal meccanismo, messe sulla pubblica piazza e sostituite con sconcertante facilità. Il loro unico scopo diviene allora quello di paventare un qualche grado di novità rispetto alle precedenti.
In questo senso meteoritico sta tutta l'ascesa e la caduta a velocità vertiginosa di miriadi di starlette durate lo spazio di una stagione, di cui risulta anche difficile riportare i nomi. Schiere apparentemente infinite, trattate alla stregua di vera carne da macello, perlomeno prestando fede ai rari esempi di film nel film che Hong Kong ci offre, come in Viva Erotica di Derek Yee o nel ben più esplicito Devil's Woman - dove un'aspirante attrice sul set di un film horror, ignara di quanto sta per succederle, viene picchiata selvaggiamente da una comparsa fino a sanguinare e perdere dei denti. La dose è rincarata da Anthony Wong, che in alcune interviste ha confermato come spesso le attrici siano ignare del ruolo che avranno e ciò a cui stanno andando incontro, ad esempio tenute all'oscuro di scene di violenza o stupro in cui dovranno recitare2.
Un vivaio che non teme morie, soprattutto considerato che può contare su un bacino non limitato alla sola città-stato. Una fucina che richiama aspiranti da tutto il sud-est asiatico e che concede la fama solo alle più fortunate; tra le più conosciute basti ricordare Yukari Oshima, Michiko Nishiwaki (dal Giappone), Michelle Yeoh (dalla Malesia), Brigitte Lin, Shu Qi, Joey Wong, Wu Chien-lien (da Taiwan), Gong Li, Zhang Ziyi (dalla Cina).
Lo sfruttamento è pesante e pressante. La prassi consolidata è quella del mordi e fuggi, e anche tra le attrici più fortunate - coloro che sono riuscite dopo sforzi e abnegazione a crearsi un seguito, una credibilità e un nome - non è raro il caso di un ritiro prematuro dopo essersi Police Story III - Supercopsposate o aver trovato di meglio da fare (probabilmente di più redditizio). Fino al recente passato la vita artistica era limitata, a scadenza, e gli abbandoni celebri erano all'ordine del giorno. Non è difficile trovare casi di attrici ritiratesi nel pieno degli anni e della popolarità, da Amy Yip a Joey Wong, da Brigitte Lin a Chingmy Yau.
A svelare il meccanismo basterebbe l'esempio di Michelle Yeoh - agli esordi nota come Michelle Kahn - che sul finire degli anni '80 fu sul punto di ritirarsi definitivamente dalle scene a causa del suo matrimonio col produttore Dickson Poon (tornò comunque trionfalmente nel 1992 con Police Story III - Supercop). A riempire il vuoto fu subito chiamata un'attrice taiwanese che, esordendo in In the Line of Duty III, assunse il nome di Cynthia Kahn - mixando il nome delle due precedenti protagoniste della seria (l'altra era Cynthia Rothrock).
Il ciclo è così completo. Uno sfruttamento incessante che segue fino all'apice della carriera, raggiunto bruciando le tappe con una manciata di film girati consequenzialmente in pochi anni, per poi essere abbandonate al proprio destino - il destino ortodossamente confuciano di ogni donna, matrimonio e focolare domestico - non appena si presenti una degna sostituta in grado di rilevare il posto.

ALTRI ORIZZONTI

Ma è davvero tanto sconfortante la situazione?
Lungi dal voler negare le difficoltà - che d'altra parte, seppure nascoste sotto i proclami, si ritrovano in qualsivoglia paese in forme non dissimili - è pur vero che esistono strade altre e diversi significati. Se i film e l'industria cinematografica offrono esempi che portano al pessimismo, è al contempo vero che sono presenti altrettanti contro-esempi in grado di instillare perlomeno il dubbio.
Basta seguire il percorso di alcune attrici per rendersi conto della diversità. Nomi come Anita Mui, Anita Yuen, Maggie Cheung, Rosamund Kwan, Michelle Reis, la stessa Michelle Yeoh, stanno a dimostrare come sia possibile arrivare a una personale affermazione, che dopo una gavetta pur sempre dura e spietata faccia emergere le personalità in tutte le loro sfaccettature.
La donna infatti assume questo carattere ambivalente, contraddittoriamente presente in tutta la cultura cinese - da un lato marginalizzata, dall'altro figura sfuggente e sempre in primo piano, libera e indomita, per certi versi intrinsecamente superiore al corrispettivo maschile. Come non notare l'estrema delicatezza presente nel fantasma di Anita Mui in Rouge, o la disperazione di vendetta e rimpianto di Brigitte Lin in The Bride with White Hair. Nel primo caso come nel secondo - e non sono certo esempi unici o isolati - si tratta di donne tradite eppure Rougenon distrutte, abbandonate dalla componente maschile e comunque non evaporate nel nulla. Nel primo caso Anita Mui torna nel nostro mondo per comprendere cosa sia successo al suo uomo (avevano deciso di suicidarsi assieme per poter essere uniti nella vita successiva), nel secondo Brigitte Lin, sentendosi tradita dall'uomo nel quale confidava (e a ben pensarci poco importa che il tradimento sia solo apparente), scatena in una strage catartica il suo spirito distruttivo. A differenza che nella cultura occidentale, dove la donna è la tentatrice, discendente di Eva, la cultura cinese, anche se non priva di contraddizioni, sembra assegnare un ruolo salvifico alla donna, un ruolo quasi diametralmente opposto. Non è un caso che prima dell'invasione vagamente misogina del nuovo wuxiapian propugnato da Chang Cheh sul finire degli anni '60, i film di cavalieri erranti avessero come protagonista ed eroina una donna (bastino ad esempio gli equilibri mostrati da King Hu in film come Come Drink with Me o A Touch of Zen).
Un'idea che si dibatte tra la grazia e la inusuale perfidia in modo ben diverso dal dittico marcatamente morale di santa e peccatrice di stampo occidentale/cristiano. Se ne configura una presenza femminile indipendente e non semplicemente ingabbiata in preconcetti e volontà maschili. Il femminino diviene così una forma dello sfuggente, un cortocircuito di luoghi e significati riscontrabile in fulgidi esempi di fierezza come in The Soong Sisters o Eigheen Springs, piuttosto che in forme più evanescenti e problematiche in Chungking Express o In the Mood for Love.

Note:
1. Con le dovute eccezioni, certo presenti, ma non sufficienti a cambiare le carte in tavola. Che poi, nonostante questo, buona parte del merito del fiorire cinematografico di Hong Kong sia da attribuire proprio alla componente tecnica (coreografi, montatori, fotografi, ecc...) sarebbe discorso da approfondire in altra sede.
2. Si veda l'intervista apparsa su Duel n. 61 (Giugno 1998) a cura di Alberto Pezzotta.

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