The Mermaid

Tra gli ultimi a capitolare di fronte alle lusinghe delle grandi corporation cinematografiche della Mainland, Stephen Chow è assurto per una breve stagione a ultimo bastione del cinema cantonese, ormai quasi completamente inglobato nella vorace industria mandarina. Si era nei primi anni Duemila, e a fronte del “tradimento” dell'altra star dell'action-slapstick hongkonghese Jackie Chan, tanto lesto quanto privo di rimorsi nel riciclarsi impavido patriota al servizio di Pechino, Chow provava a resistere, tenendosi stretta la propria identità e, di riflesso, quella di una comunità cinematografica sottoposta a una severa diaspora di ritorno.

E se già Kung Fu Hustle si concedeva - non solo per ragioni drammaturgiche - di caricarsi sulle spalle un poco agile compromesso cultural-idiomatico (il film era parlato parte in mandarino e parte in cantonese), è stato solo con i successivi CJ7 - girato quasi interamente in mandarino ma distribuito a Hong Kong e in larga parte del mondo in versione doppiata in cantonese - e Journey to the West: Conquering the Demons - girato e distribuito interamente in mandarino, e prontamente premiato al botteghino dal pubblico di casa - che l'ormai solitaria resistenza di Chow è venuta meno e il suo assorbimento nell'industria cinematografica cinese si è definitivamente compiuto.

Una resa onorevole, peraltro, quella del regista di Shaolin Soccer, dato che i punti cardine del suo cinema sembrano rimasti, almeno finora, pressoché incolumi. In cambio, Chow ha ricevuto dal pubblico cinese un credito che pochi altri registi provenienti da Hong Kong hanno ottenuto in così pochi anni (basti pensare alla fatica che sta facendo John Woo per accreditarsi come cineasta più o meno “di regime”), come testimoniano gli incassi record del suo ultimo The Mermaid. I 525 milioni di dollari racimolati al botteghino (oltre la metà ottenuti nella prima settimana di programmazione, nel corso della quale la pellicola ha polverizzato quasi tutti i record del boxoffice casalingo) hanno infatti stabilito un primato difficilmente attaccabile nell'immediato - anche se il pubblico cinese è talmente affamato di cinema che le sorprese sono sempre dietro l'angolo -, anche se il praticamente coevo The Monkey King 2 di Soi Cheang (altro hongkonghese baciato da improvvisa fortuna dopo la contro-diaspora) ci è andato molto vicino.

Un successo che deve aver colto di sorpresa lo stesso Stephen Chow, dal momento che The Mermaid è tutto fuorché un film ambizioso. Liberamente ispirato a La sirenetta di Hans Christian Andersen, questo curioso mélange di fantasy, commedia romantica, mo lei tau e apologo ecologista (non a caso, forse, il film è girato in larga parte fra Shenzhen e Guangzhou, ovvero tra le zone di mare più inquinate della Cina) vive soprattutto di episodi, alcuni dei quali folgoranti, ma rivela al tempo stesso una certa ritrosia nell'incidere in profondità le pieghe più problematiche della narrazione. Così, sia la critica al neocapitalismo sfrenato che il monito contro lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali cedono il passo a una più generica - e tutto sommato innocua - riflessione sul prosciugamento dei rapporti umani, sacrificati sull'altare della ricerca del successo. Un Chow a pieno regime avrebbe, con ogni probabilità, osato qualcosa di più. Al contrario, in questo caso, ci troviamo di fronte a un apologo tanto gentile quanto innocuo sul dialogo interrotto tra uomo e natura. Da un lato, abbiamo un imprenditore privo di scrupoli che acquista un'isola da tempo dichiarata riserva naturale per la varietà di flora marina che ospita, e quindi non sfruttabile sul piano turistico e immobiliare; dall'altro, una giovane sirena che abita con il suo popolo proprio nelle acque al largo dell'isola. Utilizzando dei sonar brevettati all'uopo, l'uomo sta costringendo le specie marine ad allontanarsi dalla sua nuova proprietà nel tentativo di far decadere l'inviolabilità del territorio, il quale tornerebbe così edificabile; quello che non sa è che gli ultrasuoni stanno causando lo sterminio del popolo delle sirene, il quale ha deciso di reagire spedendo sulla terraferma una improbabile sicaria, con il compito di sedurre e quindi uccidere il loro inconsapevole aguzzino. Compito che la ragazza non riesce a portare a termine, un po' per la sua imperizia, un po' perché fra lei e il suo “bersaglio” sorge una complicazione di natura sentimentale.

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L'epilogo è facilmente intuibile. Meno scontati sono i momenti più riusciti del film, in cui il gusto per il nonsense tipico di Chow brilla di luce propria come nei suoi lavori migliori: si veda, a tal proposito, la sequenza dei tentativi di seduzione e omicidio della giovane sirena, e soprattutto le tragicomiche conseguenze degli stessi, in assoluto uno dei pezzi di cinema migliori della filmografia del regista. Avesse mantenuto lo stesso tenore per tutto il film, Stephen Chow avrebbe firmato il suo capolavoro. Ma forse, per fare irruzione sul mercato più ricco del mondo senza rischiare di rimetterci le penne (e il pensiero corre nuovamente al povero Woo...), un rassicurante lavoro di transizione offre qualche garanzia in più. 

 Cina/Hong Kong, 2016
Regia: Stephen Chow.
Soggetto/Sceneggiatura: Stephen Chow, Kelvin Lee, Ho Miu-Kei, Lu Zhengyu, Fung Chih-Chiang, Lu Zhengyu, Ivy Kong Yuk-Yee, Chan Hing-Kai, Tsang Kan-Cheung.
Action director: Ku Huen-Chiu.
Cast: Deng Chao, Jelly Lin, Kitty Zhang, Show Luo, Tsui Hark.