Introduzione
di Matteo Di Giulio

Naked KillerUdine, come ogni anno da qualche tempo a questa parte, fiorisce in primavera grazie al Far East Film Festival. Alla recente edizione del 2001 (20-28 aprile) è dedicato questo primo speciale di Ashes of Time. Inutile dire che non poteva presentarsi un'occasione migliore per l'inaugurazione del nostro trimestrale.
Il festival di Udine è cresciuto progressivamente e ormai ha raggiunto un'importanza notevole. Per quanto riguarda il cinema orientale è senza dubbio la prima manifestazione europea ed è tra le prime del mondo, sulla scia dell'Hong Kong International Film Festival cui si ispira. La sua fama crescente è dimostrata dal grande numero di visitatori, di accreditati e di ospiti.
Quest'anno, tra i tanti, abbiamo avuto il piacere di conoscere una delle più importanti figure del cinema di Hong Kong, quel Wong Jing tanto amato dal pubblico quanto poco apprezzato dalla critica. Comunque una figura importante, una colonna portante del cinema orientale contemporaneo, grazie ad un curriculum che, tra produzioni, sceneggiature e regie, comprende oltre cento film. Giusto dedicargli una personale, ma ancora più giusto sarebbe probabilmente stato omaggiarlo con una selezione di pellicole quantitativamente e qualitativamente più consistente. Perché infatti, accanto al celebrato Naked Killer (di cui è Jing è produttore, regia di Clarence Fok) e al buon A True Mob Story (1996), limitarsi a proporre solo l'ultimo Crying Heart, senza includere film interessanti come Return to a Better Tomorrow, Last Hero in China o qualche episodio della serie God of Gamblers? Rimanendo sulle retrospettive, la più apprezzata dal pubblico è stata senza dubbio quella riferita al giovane Wilson Yip, anche lui presente. Anche in questo caso solo tre pellicole, ma di qualità altissima: Bullets Over Summer, Juliet in Love e Skyline Cruisers hanno ricevuto applausi a scena aperta. L'ultima, ma non meno importante, indagine, coinvolgeva un personaggio che ha fatto la storia del gongfupian, Bruce Lee. Un documentario, Bruce Lee: A Warrior's Journey di John Little, un film restaurato, The Kid (1950, qui Bruce ha solo 10 anni), e una mostra fotografica celebrano il suo talento e la sua grande tecnica nelle arti marziali.
Il programma è stato altrettanto ricco, con un cartellone che comprendeva film da ogni dove. Hong Kong (compresa la prima mondiale del nuovo lavoro di Herman Yau) anche quest'anno ha fatto la parte del leone (ma la crisi si sente, eccome!), ma Sud Corea e Giappone hanno dimostrato di possedere un background artistico altrettanto ricco. Ancora indietro, ma solo numericamente, Cina (e Shangai), Singapore, Tailandia e Filippine, queste ultime al loro debutto a Udine. Gli incontri pomeridiani con gli ospiti (da Hong Kong c'erano anche il produttore-regista Joe Ma, lo sceneggiatore Chan Hing-kar, la produttice Amy Chin, la giovane attrice Ai Jing, i registi Dante Lam e Herman Yau oltre alla bella Karen Mok).
Al di là comunque dei discorsi critici e delle considerazione artistiche il festival organizzato dal Centro Espressioni Cinematografiche si dimostra ancora una volta un incontro amichevole più che (e prima di) essere una rassegna cinematografica paludata. L'atmosfera è cordiale e la presenza di tanti appassionati (non solo italiani, erano presenti moltissimi stranieri, tra cui Ryan Law dell'Hong Kong Movie Database e Stephen Cremin dell'Asian Film Library Bulletin), rende finalmente giustizia a cinematografie e a realtà che meritano maggiore attenzione e maggiore visibilità.




Far East Film Festival 1998-2000
di Marco Bertolino

La prima volta che un volonteroso gruppo di giovani udinesi del Centro di Espressioni Cinematografiche organizza, sotto l'egida dell'esperto The Longest NiteDerek Elley di Variety, una coraggiosa rassegna sul cinema popolare di Hong Kong in occasione della dodicesima edizione di Udineincontri, gli organi di informazioni non paiono dimostrare grande interesse: tuttavia le sale del dopolavoro ferroviario del capoluogo friulano riescono a malapena a contenere l'afflusso di pubblico, composto da addetti ai lavori, appassionati, curiosi e dai coloriti residenti di lingua cinese. Questa prima edizione (18-24 aprile 1998) del Far East Festival offre un'ampia carrellata sulla cinematografia hongkonghese dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, proponendo una manciata di pellicole di alta qualità, con un occhio rivolto al presente (Full Alert di Ringo Lam, The Longest Nite di Patrick Yau) e uno al passato (Father and Son di Ng Wui, The Smiling Rose di Li Ying), non dimenticando né il wuxiapian (Dragon Gate Inn di King Hu) né la commedia (He Ain't Heavy, He's My Father! di Peter Chan) e celebrando addirittura l'opera cantonese (Princess Chan Ping di un giovane John Woo). Debutta anche una piacevolissima abitudine del festival: la presenza di graditi ospiti stranieri. Nel '98 sono presenti il grande artigiano Ringo Lam, la brava Anita Yuen e il simpatico Lau Ching-wan.
Alla seconda edizione (10-18 aprile 1999) il Far East è già un fenomeno non solo locale, che mobilita l'attenzione delle autorità, ma anche nazionale, a giudicare dallo spazio concesso dalla stampa. La novità è che a farla da padrona non è più la sola produzione di HK - della quale vengono proiettati esclusivamente esempi recenti - ma anche le limitrofe scene di Singapore (Army Daze: The Movie), Taiwan (Love Go Go), Corea del Sud (The Soul Guardians) e perfino Cina popolare o continentale (l'ottimo Spicy Love Soup di Zhang Yang) che dir si voglia. È l'anno del nuovo Patrick Yau (Expect the Unexpected), di Donnie Yen (Ballistic Kiss), di Fruit Chan (The Longest Summer), ma soprattutto della scoperta di un grande, personalissimo autore di noir, Johhnie To (A Hero Never Dies). La retrospettiva è succosa: il periodo delle commedie di un insospettabile John Woo (Money Crazy, From Riches to Rags, To Hell with the Devil). Tra gli ospiti, ancora Lau Ching-wan, Francis Ng, Anthony Wong e Donnie Yen.
Giunto alla terza edizione (8-16 aprile 2000), il Far East Festival è ormai considerato una manifestazione di punta, la più grande rassegna del suo genere in Italia, se non in Europa. Fanno capolino novità provenienti dal Giappone (il ciclo di Ring, un'autentica scoperta) e dalla Corea del Nord (Forever in Our Memory). Hong Kong si impone con una produzione estremamente vitale anche se non più originalissima: commedie (King of Comedy e From Beijing with Love rivelano il talento comico di Stephen Chiau), polizieschi (l'accoppiata al fulmicotone Running Out of Time - The Mission di Johnnie To), moderni wuxiapian (A Man Called Hero), fantapolitici (2000 A.D.); non mancano un recente Jackie Chan (Gorgeous) e la rivelazione cinese (Shower di Zhang Yang), cui va il premio del pubblico. Ospiti cordiali e disponibili, tra gli altri, Johnnie To, Simon Yam e Stephen Chiau.
Il resto è storia.




Niente di nuovo sul fronte orientale?
di Marco Bertolino, Roberto Curti, Matteo Di Giulio, Stefano Locati, Luca Persiani

Un Far East Festival all'insegna dell'aurea mediocritas, quello dell'edizione 2001. La progressiva, innegabile crisi del cinema di Hong Kong non è stata compensata, al contrario dello scorso anno, da piacevoli sorprese provenienti da Giappone, Cina Popolare o Corea del Sud. Su tutto ha pesato la mancanza del cinema popolare più efficace ed estremo. La produzione di Hong Kong, quella sulla quale si indirizza la maggior parte dell'aspettativa e del gradimento del pubblico, mostra evidentissimi segni di stanchezza, e anche il cinema giapponese (che con prodotti come la trilogia horror Ring aveva conquistato la platea del festival lo scorso anno) non si solleva per lo più da una stancante mediocrità. Anche le retrospettive, dedicate a Wong Jing, Bruce Lee (questa un po' snobbata dal pubblico) e Wilson Yip, non sono state all'altezza della situazione, quantitativamente poco consistenti e, ad eccezione dell'ultima, poco rappresentative e di scarsa qualità. D'altra parte il festival ha portato alla luce alcune opere, spesso piccole per concezione e produzione, che per qualità e potenziale commerciale avrebbero invece buone possibilità di trovare distribuzione anche in Italia.

L'apertura del festival è con il Giappone: Space Travelers di Katsuyuki Motohiro è la storia di tre giovani rapinatori di banche giapponesi non troppo organizzati che falliscono un colpo, e si ritrovano assediati nella banca con numerosi ostaggi. Uno dei tre si accorge che il gruppo che si è formato è identico a quello dei protagonisti di un anime di fantascienza di cui lui è appassionato, e così assegna ad ognuno il ruolo di uno dei protagonisti del cartone animato. Si crea una specie di squadra, in cui trovano parte e motivo di orgoglio le varie personalità (dal timido quadro all'impiegata neosposina). Il film è fondamentalmente una commedia corale che aspira a far risaltare i vari protagonisti a contatto con una situazione estrema, ma narrata con molta leggerezza. L'intento riesce parzialmente, grazie anche a qualche momento particolarmente azzeccato, ma la pellicola finisce per stemperarsi nella ripetitività di situazioneSkyline Cruisers e di set, e la svolta drammatica finale non gli regala certo credibilità. * Sausalito, prodotto da Wong Jing e diretto dal buon artigiano Andrew Lau, è una moderna sophisticated comedy ricalcata sul modello statunitense, ben lontana sia dalla salutare bizzarria delle commedie à la Stephen Chiau che dalle delicate atmosfere sentimentali di cui gli hongkonghesi sono pure capaci: Maggie Cheung vi interpreta una sorta di Julia Roberts con gli occhi a mandorla, Leon Lai il classico genio informatico narciso ed egoista. Ma chi sentiva il bisogno di un Notting Hill in salsa di soia? * Un film come il tailandese Bangkok Dangerous, dei fratelli Oxide e Danny Pang (registi pubblicitari di formazione hongkongese), storia nera di un killer sordomuto e delle vendette incrociate che si trova a compiere, è la felice evoluzione di un linguaggio modernissimo e vario che parte dalle scelte estetiche dei neri e dei bloodshed hongkongesi per unirle ad una personale visionarità e ad un plot semplice ma forte.

Skyline Cruisers, esplosivo action movie, estremizza le coordinate stilistiche e narrative di Mission: Impossible 2 al limite della parodia. Wilson Yip rinnega il suo vecchio cinema low budget ma carico di sentimenti per un progetto che, nelle sue stesse parole, è spudoratamente commerciale. Promosso con riserva. * Ed eccoci nel cuore nero del Giappone, dove l'alta finanza incontra la faccia sporca della medaglia e la connivenza si fa legge. In Spellbound però un agguerrito gruppo di impiegati decide di non stare più al gioco e cerca di contrastare con ogni mezzo il gruppo dirigente. Misurato quanto spietato, il film di Masato Harada è un complesso e nerissimo intreccio di tensioni mai sopite, ben giocato su un ritmo perennemente in bilico tra calma riflessiva e scoppi di adrenalina. Senza compiacimenti o illusioni viene ritratta una guerra incruenta in grado di scuotere dalle fondamenta un'intera società. Con qualche caduta di tono, ma notevole. * Da Hong Kong è da segnalare la tenera storia d'amore dei due disadattati interpretati da Sandra Ng e Francis Ng in Juliet in Love di Wilson Yip; una coppia per caso che si ritrova a dover accudire il figlio di un gangster locale. Semplice ed efficace nella messa in scena, il film segue le vicende dei personaggi con amore e partecipazione, nonché un tocco di umorismo che ne alleggerisce i toni a volte decisamente duri. * Il cinese Tell Me Your Secret è il melodramma di una coppia che viene sconvolta da una tragedia: una sera lei investe con la macchina una ciclista e scappa senza aiutarla, lui vede per caso cosa è successo e si allontana lentamente dalla donna che non gli ha rivelato l'accaduto. In più la figlia della donna ferita si aggira per la zona con un cartello in cui chiede se qualcuno abbia vista chi ha investito la mamma, la quale versa in pessime condizioni in ospedale. Lo spunto deriva da una storia vera, su cui il regista ha costruito un dramma che punta tutto sull'introspezione dei personaggi ma che troppo spesso rischia di diventare didascalico. * Più perversamente comico Jiang Hu: The Triad Zone di Dante Lam, sulle alterne vicende di un boss mafioso interpretato da Tony Leung Ka-fai e dell'insopportabile consorte Sophie (Sandra Ng). I momenti di divertimento non salvano tuttavia una pellicola aneddotica che solo in dirittura finale recupera le movenze del gangster movie.

Si comincia bene con A True Mob Story di Wong Jing, ennesima incursione nel noir del noto produttore-regista: un apologo melodrammatico e violento sull'ascesa e caduta di un membro delle triadi (un Andy Lau in ottima forma) che alterna diversi registri (dall'action alla commedia sentimentale passando per il film processuale) con una nonchalance che il solo Wong Jing sfoggia senza vergogna. * Born to Be King è il settimo episodio della nota serie Young and Dangerous, che dipinge la condizione della malavita asiatica all'interno di un ambizioso affresco sociopolitico finendo per lasciare l'amaro in bocca. * Spesso il cinema di genere giapponese riserva sorprese anche in film dal dichiarato intento commerciale. Non è il caso di Whiteout di Setsuro Wakamatsu, lungo, stentato e prevedibileA True Mob Story thriller che sa di già visto. Sorta di Die Hard ambientato in una diga durante una bufera di neve, parte bene, ma si eclissa dopo i primi minuti.  Le due ore restanti sono una prova di forza. Non tanto per il protagonista, che passa la maggior parte del tempo bardato di tutto punto in mezzo alla neve, quanto per lo spettatore. Sballottato da una stanza dei bottoni all'altra, con intermezzo di vento che fischia, non fatica a cadere nella depressione più totale. Possibile abbia avuto tanto successo in patria? * The Duel, divertente parodia del genere cappa e spada, scoppiettante dal punto di vista visivo e costellata di battute di greve ma efficace umorismo, è emblematica - nel bene e nel male - delle tendenze produttive del recente cinema di Hong Kong (maggior ricorso agli effetti speciali, recupero della tradizione). * Song of Tibet è la commovente storia della vita di una coppia tibetana che ricorda un po' La strada verso casa di Zhang Yimou, con personaggi ben disegnati e affettuosamente seguiti. Forse eccessivamente lungo e a tratti un po' retorico, il film non riesce a catturare completamente, durante tutto il suo percorso, l'attenzione dello spettatore, rimanendo ad ogni modo un'interessante finestra su un mondo ancora inesplorato.

Già dal prologo si capisce tutto: tre simpatici perdigiorno suonano la chitarra su una spiaggia assolata inseguendo delle ragazze. Prendere o lasciare. Summer Holiday di Jingle Ma è una di quelle commedie agrodolci che hanno poche pretese, ma che risultano solari e scanzonate al punto giusto. Personaggi azzeccati, costumi e scenografie cool quanto basta e un intreccio non stupidissimo riescono a tenere in piedi il film per tre quarti. Peccato che il finale arrivi in parte ad affossarlo, allungando eccessivamente il brodo e facendo perdere il ritmo della vicenda. Sia come sia, potrebbe competere alla pari con le decine di pellicole simili americane, peccato che non lo vedremo mai nelle sale. * Difficile tenere 100 minuti di solo sesso, eppure Plum Blossom di Kwak Ji-kiun riesce perfettamente nell'impresa, e senza neppure cedere a banalità o volgarita. E' il dramma di due amici che, crescendo insieme, imparano ad affrontare il sesso e le sue conseguenze. Nel finale un po' di retorica - la presa di posizione morale inserita a tutti costi stona un po' - non guasta la buona impressione generale. Davvero notevoli le attrici, spesso nude e impegnate in scene più spinte della media. * Così come ne L'incendiaria, l'horror Cross Fire, già visto all'ultimo Mifed con il suo titolo alternativo Pyrokinesis, si basa su personaggi che non riescono a controllare i loro devastanti poteri E.S.P. L'inizio è promettente, violento e spettacolare, ma nel finale il regista butta troppa carne al fuoco, aggiungendo un complicato intreccio fanta-politico che finisce per stancare. Venti minuti in meno per etichettarlo come un buon film di genere. * What Is a Good Teacher è un bizzarro film comico di ambientazione scolastica interpretato e diretto dall'ottimo Francis Ng: tra osservazioni sulla condizione degli adolescenti e tocchi di humour surreale, la pellicola denuncia la labilità dei confini tra i ruoli predefiniti (genitore/alunno/insegnante) con una salutare ventata di follia. * Un autista raccoglie una smarrita ragazza su una strada di campagna. Da quel momento si innescheranno una serie di eventi caotici, drammatici e divertenti, ambientati nelle atmosfere rurali di una campagna della Cina popolare apparentemente placida ma in realtà covo di rapinatori, truffatori e mafiosi. Ben costruito e sostenuto da un buon ritmo, All the Way convince anche per l'onestà con cui il regista costruisce questa sorta di road movie post-pulp, immerso in atmosfere decisamente inedite per il pubblico occidentale e servito da un gruppo di attori in bella forma, a partire dall'affascinante e versatile Karen Mok. * Esperimento interessante per Herman Yau. Da sempre attratto da storie prese dalla cronaca nera (molti dei suoi film sono infatti ispirati a fatti accaduti realmente), From the Queen to the Chief Executive è però un ulteriore passo in avanti. Film politico di denuncia - si occupa delle sorti di alcuni detenuti rinchiusi a discrezione di sua maestà, formula che negli esiti pratici si trasforma in carcerazione indeterminata - è altrettanto duro e spietato che altre sue pellicole come The Untold Story o Ebola Syndrome, ma decisamente più maturo e meditato. Sebbene non privo di difetti, è un film importante se non What Is a Good Teacheraltro per la sua non-omologazione ai dettami del mercato cinematografico locale. * Bullets Over Summer è un solido poliziesco con protagonista una coppia di difensori della legge ispirata a quella più celebre di Arma letale, di grande efficacia fin quando prevalgono i toni da commedia e l'osservazione della quotidianità, più confuso e banale nella parte conclusiva.

Una grossa delusione l'unico rappresentante di Singapore, Chicken Rice War, commedia culinaria che altro non è se non un nuovo adattamento del capolavoro di Shakespeare Romeo e Giulietta. Personaggi costruiti male, battute di scarso impatto, niente sembra giustificare l'incontenibile entusiasmo che parte del pubblico ha riservato alla pellicola. * Tremendamente indeciso tra poliziesco (come sembrerebbe dall'inizio) e commedia romantica (quale si rivela essere alla fine), Marooned non soddisfa del tutto nemmeno i più appassionati estimatori dei due generi. Discreti i due protagonisti, entrambi affermate popstar e volti emergenti nel mondo del cinema, ma per il resto di tratta di ordinaria amministrazione. * A Lingering Face è un dramma asciutto, intrigante e ben costruito. Una delle poche cose convincenti proposte dalla Cina continentale, visto che il livello di film proposti non è stato altissimo. Si tratta della storia di due autostoppisti che vengono caricati su dalle persone sbagliate e per questo sbaglio subiranno delle conseguenze molto amare. Molto sentita la prima parte, quella più exploitation, più didascalica la seconda, quando il dramma dei protagonisti prende il sopravvento. Il finale ritmato che torna sui toni cupi dell'inizio, salva la pellicola dalla lenta discesa cui sembrava destinato. * Un film delicato, anche se prevedibile. Così si potrebbe sintetizzare First Love di Tetsuo Shinohara. Satoka è una ragazzina colpita dal ricovero improvviso in ospedale della madre per un banale raffreddore. Sotto sotto immagina si tratti di qualcosa di più grave, così nel tentativo di rallegrarla si mette a cercare il suo primo amore - di cui ha scoperto l'esistenza grazie ad una vecchia lettera che ha ritrovato per caso. Naturalmente l'incontro l'aiuterà a crescere, in vista dello scontato finale. Nulla di che, dopotutto (e a tratti persin troppo pedante), ma confezionato con cura e interpretato alla perfezione. *  Il ritorno alla commedia di Gordon Chan con Okinawa: Rendez-Vous è molto interessante, sia per la scelta della location, la spiaggia di Okinawa (chiaro occhiolino al pubblico giapponese), che per il cast veramente stellare, con gli affermati Leslie Cheung e Tony Leung Ka-fai affiancati dalla bella cantante Faye Wong, al suo secondo film dopo Chungking Express di Wong Kar-wai. Certo non avendo a disposizione la verve di uno Stephen Chiau il film perde molto del suo smalto comico, ma la patina sofisticata e trendy riescono a tenere in piedi la pellicola garantendo più sorrisi che risate. * Classico filmone da festival con sesso e violenza filtrati da un'ottica autoriale, Happy End di Woo Jung narra di un triangolo che si sviluppa quando la moglie di un uomo semplice, donna in carriera forte e passionale, ritrova un suo antico amore e intreccia con lui un rapporto intenso e felice. Il marito comincia ad essere roso dall'infedeltà della moglie, e perde il lavoro. Il matrimonio visto come istituzione, insieme necessaria e castrante, e l'impossibilità di essere realmente felici all'interno del sistema di valori alienante imposto dalla società sono i temi di un film che spesso non è all'altezza delle sue impegnative aspirazioni. * Basta il nome per aprire una voragine tra i fan del cinema hongkongese. Chi lo ama e chi lo odia. Il più discusso tra i categoria III, Naked Killer di Clarence Fok (con l'apporto produttivo di Wong Jing), è una forsennata corsa tra i generi e gli umori. Con riferimenti sparsi a Basic Instinct a costituirne la facciata, è in realtà una divertita quanto ipertrofica accozzaglia di  delirio fumettistico, softcore pop, scene d'azione ingegnose e uno humor irriverente - si veda il poliziotto che finisce per sgranocchiare innocentemente l'organo genitale maschile (reciso al cadavere su cui sta indagando) caduto nel suo piatto. Questa è exploitation, i critici seri tutti in castigo dietro la lavagna. * Il filippino Woman of Mud è un salto indietro nel tempo. Gli amanti dell'exploitation degli anni settanta (da Corman a Joe D'Amato) apprezzerebbero questo horror a tinte forti (non molto splatter ma con un bel po' di sesso soft): un energumeno, aspirante scrittore, si ritira in una baita isolata per scrivere il suo primo romanzo e si trova coinvolto, suo malgrado, in una serie di omicidi commessi da una misteriosa ragazza sputata da una pianta stregata. Gli effetti sono poverissimi, ma la storia ha un gusto kitsch d'altri tempi e, nonostante il cinema fosse stracolmo e facesse un caldo infernale, la platea si è animata e ha seguito la pellicola sottolineando i momenti salienti con risate e applausi a scena aperta. UnOkinawa: Rendez-Vous vero piccolo cult!

Help!!! (2000) è una delle tre commedie dirette da Johnnie To in coppia con il socio Wai Ka-fai (Peace Hotel): questa sfoggia un godibile intreccio di ambientazione ospedaliera - inevitabile la parodia di E.R. - con un trio di protagonisti belli e bravi e alcune sequenze di massa costruite con la consueta perizia dal maestro del new noir hongkonghese. * Per meriti più filologici che artistici, è Bruce Lee: A Warrior's Journey (2000) l'evento del Festival: il regista americano John Little ha assemblato uno straordinario collage di documenti e testimonianze sul più grande attore di martial arts movies del secolo (e che Jackie Chan ci perdoni...), tra cui rare interviste televisive e telefoniche, preziose immagini di repertorio e soprattutto un lungo frammento inedito - 20 minuti circa - di Game of Death, che restituisce finalmente dignità al progetto originale del film, montato e completamente stravolto da produttori senza scrupoli nel 1978, cinque anni dopo la scomparsa dell'indimenticata star orientale. * Il cinema sud coreano nelle sue derive autoriali è davvero difficile da giudicare. Bello  lo spunto iniziale di A Masterpiece in My Life, con un regista di film hard che vuole sdoganarsi dal genere e rimettersi in gioco e che viene aiutato a realizzare questo suo ambizioso progetto da una valida e bella sceneggiatrice. Ma nella seconda parte il film si allunga fino a trasformarsi in una modesto mélo basato interamente sui due protagonisti. Mancano purtroppo al regista la capacità di sintesi (una durata inferiore avrebbe giovato) e uno stile veramente personale. * Purtroppo snobbato dal pubblico Chrysantemum Tea è un discreto dramma romantico, essenziale e intensissimo, ambientato in una delle province cinesi più estese, meno popolate e meno conosciute, il Qinghai (a nord-est del Tibet). * Lascia spiazzati Pisces, film molto discusso che dopo una (eccessivamente) lunga introduzione dei personaggi, lascia presagire una storia d'amore molto contrastata, prima di scatenare, nell'ultima mezz'ora, una feroce discesa nella psiche umana. Niente di nuovo sotto il sole, ma alcune atmosfere cariche di angoscia colpiscono a fondo e lasciano senza fiato, anche se manca il coraggio di osare quanto un Audition. * Tratto da una storia realmente accaduta in Tailandia, The Iron Ladies racconta le gioie e i problemi di una squadra di pallavolo maschile i cui componenti sono tutti omosessuali, eccetto uno. Nonostante la bravura e il supporto di numerosi fan, la squadra trova impedimenti da parte di un mondo sportivo dipinto come, almeno ai suoi vertici, abbastanza chiuso e retrogrado. Il film non si discosta molto dal modello classico della commedia sul gruppo di persone affiatate ma osteggiate dall'ambiente circostante, con tocchi drammatici e spunti sociali accennati. * Cinema sicuro di sé quello sud coreano, massiccio, in grado di coniugare autorialità e generi, espressione di un'industria in salute, che non disdegna d'ammiccare all'Occidente pur mantenendo una forte personalità, e che quando cade, lo fa in piedi. Il mélo alla Harry ti presento Sally di I Wish I Had I Wife Too dimostra che forse è giunto il momento di ridisegnare la mappa delle gerarchie cinematografiche dell'estremo Oriente.

La selezione giapponese, assai striminzita e discutibile, ha riservato una grossa delusione per i patiti dell'horror: Persona inizia come se volesse spaccare il mondo, con i suoi studentelli dai volti coperti da inquietanti maschere simil-Venerdì 13, e poi svacca miseramente tra buchi di sceneggiatura grossi come la fossa delle Marianne e un intrigo giallo degno dei telefilm di Don Tonino. Altro che gusto per l'ellissi e Tokyo Raidersvisionarietà: l'insipienza d'insieme non ammette alibi. * Una commedia romantica molto riuscita è Needing You..., di Johnnie To e Wai Ka Fai, con il divo Andy Lau e la cantante pop Sammi Cheng, un film che mette in scena la nascita di una relazione sentimentale fra la stramba impiegata Kinki Kwok e il suo capo Andy Cheung; fra classiche situazioni della commedia di questo genere e scatti demenziali puramente honkongesi, l'appeal naturalmente comico e l'atmosfera svagata e adorabile di Sammi Cheng, a confronto col carisma di Andy Lau, funzionano alla grande, divertendo puntualmente. * Tokyo Raiders è un po' quanto rimane degli action di Hong Kong dopo la fuga di talenti in America: il film di Jingle Ma mostra grande abilità nelle scene di azione e di combattimento, e nel mantenere in piedi una trama spionistica intricata, orchestrando efficacemente gli attori e la macchina da presa. Niente di nuovo o originale, ma buon ritmo e divertimento per 100 minuti. * Meritano un occhio di riguardo le Filippine, un cinema poverissimo, eppure tutt'altro che privo di idee: vedere, per credere, l'interessante dramma noir Paradise Express, che non sfigurerebbe affatto accanto a  certe cose Hong Kong dei tempi d'oro. * Un'altra commedia, questa però surreale e stralunata, è narrata in Monday, del regista giapponese Sabu (visto in Italia col molto meno interessante Postman Blues). Fra atmosfere pericolosamente in bilico tra i fratelli Coen, Lynch e Swankmajer, seguiamo la storia di un modesto impiegato che in un albergo fa i conti con le ultime, deliranti ore della sua vita, a cominciare dalla veglia funebre di un collega il cui corpo senza vita ha dovuto operare per correggere, con esiti disastrosi, un problema col peacemaker. Esilarante variazione su temi alla Fuori orario di Martin Scorsese, narrato con uno stile preciso e sicuro, il film si regge tutto sui tempi e le atmosfere evocate dalla regia, nonché sul corpo sottoposto a tensioni quasi keatoniane di Shinichi Tsutsumi. * Ancora un altro film coreano direttamente debitore dell'americano Frequency: un uomo e una donna abitano la stessa casa sulla spiaggia, da cui il nome italiano del film, Il mare. Si scrivono e fra loro nasce una storia, ma c'è un particolare: lei vive nel 2000, lui nel 1997, e le comunicazioni sono possibili grazie ad una cassetta delle lettere che trasporta i messaggi nel tempo. Affogato in un minimalismo narrativo poco attraente, il film da l'impressione di essere un esercizio di stile girato con troppo occhio alle immagini patinate e poca attenzione allo sviluppo di storia e personaggi, soprattutto considerato lo spunto di partenza molto forte.

Sorprendente A Quartet for Two, che inizia come un drammone da camera e si scopre invece delicata commedia agrodolce (lui e lei divorziano: i figli rimangono a vivere con l'inetto padre) popolata di personaggi bizzarri e stralunati (impagabili i due ragazzini). * Healing Hearts rappresenta l'esordio cinematografico del regista televisivo Gary Tang e si propone come la versione seria di Help!!!. Sulla falsariga Healing Heartsdel più famoso telefilm americano di ambientazione ospedaliera, si concentra sul difficile rapporto tra un medico (Tony Leung chiu-wai) e una paziente (Michelle Reis) dedicando breve spazio anche ad altre mini-storie; una vera chiavica, priva anche di quelle impennate che rendevano interessanti i prodotti minori di qualche anno fa: piattezza paratelevisiva, attori svogliati, noia generale. * Pollice verso anche per Crying Heart (2000), che fa rimpiangere persino le prove più deliranti di Wong Jing: polpettone a forti tinte sulle agghiaccianti vicissitudini di un ritardato mentale, ci è parso uno spettacolo inutile e malaugurante. * Libera Me è un poderoso psycho-thriller incendiario che, pur non avendo un briciolo della poesia e dell'epica di Lifeline (Hong Kong, regia di Johnnie To), mette all'angolo un qualsiasi blockbuster hollywoodiano, oltretutto spingendo parecchio su situazioni non proprio all'acqua di rose (violenza sui bambini, nudi pre-teen, ustioni). * Fortemente debitore del cinema di Wong Kar-wai è Twelve Nights dell'esordiente Aubrey Lam, delicata commedia sentimentale con Eason Chan e Cecilia Cheung, finalmente alle prese con un personaggio veramente adulto. Dove non riesce a decollare la regia, un  po' acerba, spiccano gli interpreti, convincenti e capaci di rendere credibile un film non facile anche se ammicca al pubblico giovane. * Il sudcoreano The Foul King, di Kim Jee-woon, premio del pubblico (che addirittura lo ha applaudito un paio di volte a scena aperta) è una freschissima commedia su di un impiegato che diventa lottatore per rivalsa sulla sua vita mediocre e sul capo tiranno. Fra fulminanti (e a volte genialmente violente) gag fisiche, efficaci e divertenti combattimenti di wrestling e una capacità narrativa che sa sfruttare al meglio i ritmi della commedia, il film scorre divertentissimo e veloce, servito al meglio dal volto simpatico e versatile di Song Kang-ho. * Sun-ae torna dagli Stati Uniti per scoprire che una sua amica è perseguitata da un compagno che tutti credono morto. Muoiono poi improvisamente un regista e un'attrice che fanno parte dei sette membri di un gruppo di ex studenti universitari, "I Pochi Buoni": un ignoto assassino sta gradualmente eliminando i ragazzi. Parte in quarta A Nightmare, horror-thriller giovanilistico coreano con un paio di momenti gotici molto tensivi, ma poi si adagia un po' sulla sua storia e sugli schemi del teen horror internazionale, mentre lo spettatore perde interesse per il classico meccanismo che vede i protagonisti decimati mano a mano che la storia procede.

Clean My Name, Mr. Coroner! (poliziotto infiltrato incriminato per omicidio cerca di provare la propria innocenza con l'aiuto di un medico legale) ha una sceneggiatura degna dei film di Corbucci con Milian/Nico Giraldi: intrigo giallo che mostra la corda dopo venti minuti (e ne Wu Yenoccorrono altri ottanta e passa per arrivare alla fine), zeppe comiche non di prima mano e un protagonista (Nick Cheung) piuttosto insipido. Francis Ng, il coroner del titolo, con papillon, frangetta e modi affettati, è simpatico, ma alle prese con un macchiettone, mentre il buon vecchio Ti Lung pare imbalsamato. Finale imbarazzante. * Dopo Needing You... e Help!!!, Wu Yen chiude in bruttezza il periodo più nero (creativamente parlando, ché i film sono stati successi al box office hongkonghese) della carriera di Johnnie To. Un film inesportabile, non ci piove: due ore e cinque di commedia in costume tutta in due interni sono una bella mazzata per noi occidentali. Passati i primi dieci minuti in cui la confusione delle identità sessuali (Anita Mui che fa l'imperatore Qu Yi, Cecilia Cheung nei panni di una fata incantatrice dalla doppia identità, maschile e femminile) e i botta-e-risposta divertono abbastanza, il resto è assai ripetitivo e stilisticamente piatto. * Altra sorpresa è il dramma militare J.S.A. - Joint Security Area, robusto e commovente racconto dell'amicizia finita in tragedia fra alcuni militari di stanza al confine delle due coree. Molto ben scritto e girato, con un occhio di riguardo per uno stile narrativo di stampo americano, ma comunque personale, il film di Park Chan-wook ha convinto il pubblico coreano (che lo ha reso il più grosso successo al box office nazionale del 2000) e quello di Udine, che gli ha regalato il secondo posto nella competizione del festival. * Della rappresentativa cinese tacere è bello. Semplicemente imbarazzante il kolossal catastrofico Crash Landing, accompagnato da ironici applausi a scena aperta nelle scene clou, più vicine a Zucker-Abrahams-Zucker che al modello Airport. * Le Filippine hanno preso il posto di Hong Kong quanto a gusto per l'exploitation, e il violentissimo poliziottesco The Fighter (sempre filippino ma con non pochi debiti col cinema italiano di genere degli anni '70) sta qui a dimostrarlo.




Hong Kong, 2001 A.D.
di Roberto Curti

Il cinema di Hong Kong? Sembra morto, invece... è moribondo. I prodotti medi appaiono sempre più impersonali e fatti con lo stampino; gli autori hanno capito che è meglio una disonorevole resa (al botteghino) che una onorevole sconfitta e si sono messi a sfornare pellicole/chewing gum usa-e-getta che lasciano basiti i fan; sopravvivono pochi nomi (uno su tutti: Wilson Yip) che riescono ad adeguare le Juliet in Loveesigenze commerciali con una visione di cinema personale e sentita (e Juliet in Love è cosa tra le più belle viste negli ultimi tempi al cinema, punto e basta). Oggi chi entra in un cinema dell'ex protettorato (e gli spettatori sono sempre meno, di fronte al dilagare di vcd pirata e non - i prezzi sono ridicolmente bassi) si deve sorbire prodotti a basso costo e senz'anima come Healing Hearts o Clean My Name, Mr. Coroner!: una star di richiamo (Tony Leung, Francis Ng, Nick Cheung), spesso svogliata, uno straccio di trama occhieggiante a questo o quel trend di successo, un'urgenza di bruciare i tempi in modo da arrivare nelle sale il prima possibile. Un film nasce e muore in tempi brevissimi, a Hong Kong: se fai un passo falso, non puoi far altro che rialzarti e ricominciare a correre, o gli altri ti calpesteranno. Ecco perché uno come Johnnie To è costretto a sfornare tre film in una stagione, uno peggio dell'altro per inciso, per rifarsi del flop di capolavori come The Mission. To è innanzitutto un uomo d'affari, e se per recuperare un po'di soldini occorre girare commediole sciape come Needing You..., Help!!! o Wu Yen, non ci pensa due volte. Tutti lavori, si badi bene, inesportabili, specie Wu Yen: l'occidentale rimane di ghiaccio di fronte alle smorfiette degli attori, la confusione delle identità sessuali può tutt'al più interessare il critico, ma i compratori scappano. E non dimentichiamo che ormai i prodotti di Hong Kong non vengono comprati a scatola chiusa neppure nei mercati limitrofi. Ci sono poi i blockbusters, opera di registi-divi come Gordon Chan (che con Okinawa: Rendez-Vous strizza l'occhio ai mercati giapponesi, con la stessa ingenuità con cui lo The Storm Riders di Andrew Lau si faceva bello di effetti digitali): il problema è che film come 2000 A.D. o Gen-X Cops sono versioni centrifugate e pastorizzate di ciò che una volta aveva reso grande il cinema cantonese: e allora, vai con sparatorie, inseguimenti, azione in dosi massicce. Manca, però, l'ispirazione; e manca un ricambio generazionale, soprattutto a livello di sceneggiature. Molto semplicemente, oggi s'è persa la capacità di raccontare il proprio paese, di osservarne i cambiamenti (sociali, culturali, economici) e metterli su pellicola. Rimane il senso di esteriorità e banalità di cose ripetute mille volte, reiterate solo per compiacere il pubblico. Lo stesso Crouching Tiger, Hidden Dragon, che a Hong Kong ha suscitato reazioni tiepidine (e ci mancherebbe: a differenza degli sbavanti critici occidentali, gli hongkonghesi qualche wuxiapian l'avevano già visto, e potevano fare confronti), darà vita ad un'onda lunga di rinascita del genere dopo la deleteria indigestione dei primi anni '90 (di cui fece le spese Ashes of Time di Wong Kar-wai). Speriamo bene. Resta da dire del cosiddetto cinema d'autore, un discorso a sé stante: se Stanley Kwan sta diventando un prediletto dei festival occidentali, Fruit Chan pare impelagato in una preoccupante involuzione formalistica (Durian, Durian); Wong Kar-wai è sempre immenso, e la sua ombra aleggia nelle opere di esordienti come Aubrey Lam (Twelve Nights, tra le cose più degne viste a Udine), ma dubito che allo spettatore di Hong Kong importi qualcosa del suo prossimo film. Intanto Ringo Lam è tornato a girare con Van Damme (poteva andargli peggio: che so, dirigere Steven Seagal) e Tsui Hark dopo Time and Tide pare definitivamente alla frutta. A sentire gli addetti ai lavori, il futuro è rappresentato da Internet (le dotcom hanno iniziato a finanziare e a produrre pellicole) e dall'arrembaggio delle tv via cavo. Gli esperti ostentano fiducia. Il malato uscirà dal coma profondo in cui versa? Se ne riparla nel 2002.




Professione cinema... parola di Wong Jing
di Stefano Locati

Regista, produttore, sceneggiatore e chissà cos'altro, Wong Jing è un vero e proprio tuttofare dell'industria cinematografica hongkongese. La sua filmografia è tanto sterminata quanto eterogenea, anche se ha avuto da sempre due passioni principali: la commedia più sfrontata e il gioco d'azzardo - guarda caso due delle grandi passioni degli hongkongesi in genere. Approfittando di una retrospettiva-omaggio che prendeva in considerazione (parte de) i suoi ultimi film - il dramma sulle triadi A True Mob Story (1998) e il mélo sociale Crying Heart Naked Killer(2000) per le regie, la commedia sentimentale Sausalito, il wuxiapian comico The Duel e il più famoso Categoria III di sempre, Naked Killer, per le produzioni - questo ultimo Far East è stato dunque un'ottima occasione per incontrarlo.
«Lavoro sedici ore al giorno, leggo tra i dieci e i venti giornali, parlo con i giovani, per capire come comunicano tra loro, come si comportano e così via. Bisogna tenersi aggiornati. L'importante è infatti far divertire il pubblico, e per farlo bisogna sapere cosa vuole». Questo in sostanza la summa del Wong Jing pensiero. Siamo lontano anni luce dal cinema d'autore e da tutta la sue fisime. Quello che importa qui sono i risultati e, inutile nasconderselo, i soldi. Non è un caso infatti che più che un regista, Wong Jing sia considerato un produttore con un'anima da accorto affarista. Il che non si trasforma a priori in un fatto negativo, perlomeno nei momenti più significativi della sua carriera.
La sua è una scelta precisa e consapevole. Se il cinema è intrattenimento, la strada migliore per fare cinema è sondare i desideri del pubblico, scoprire da cosa è affascinato, per cosa si emoziona, di modo da poterlo trasporre in pellicola. Un percorso che nei casi migliori arriva a forgiare nuove mode e modi alternativi di rappresentazione, negli altri si limita a seguire l'esistente nulla apportandovi. D'altronde «se si comunica con il linguaggio dei giovani loro capiscono e ascoltano ciò che tu vuoi dirgli. Altrimenti non ti ascoltano». Ecco quindi l'equazione in grado di distinguere un successo da un disastro. È tutta questione di metodo, in fondo. La confezione assurge ad elemento fondamentale, in cui il contenuto è solo incidentale, atto a veicolare qualche ora di spensieratezza. Il suo è quindi un cinema indubbiamente popolare, di largo consumo, ma non piatto e lobotomizzato. È vero, spesso si nota una mancanza di coerenza, a volte gli manca una certa continuità, ma è difficile vederlo come semplice cinema spazzatura, sovrabbondante com'è di trovate e autoironia. È lo stesso Wong Jing a sottolinearlo, ed è difficile non credergli, soprattutto osservando il suo sorriso sornione e quel suo aspetto pacioccoso. Un cinema che non si prende troppo sul serio né ha necessità di farlo, tutto qui il segreto. Peraltro è anche inutile raffigurarselo come l'altra faccia del cinema dell'ex-colonia, quella più gretta e rozza, in contrapposizione all'autorialità di un Wong Kar-wai a caso. Perché «io e Wong Kar-wai siamo buoni amici. Abbiamo anche lavorato insieme, agli esordi, per la TVB». Un personaggio affascinante, dunque, Wong Jing. Senza illusioni, senza velleità astruse, con nessun desiderio di riconoscimenti critici per essere soddisfatto del suo lavoro. Che poi rimane quello di sempre: assemblare pellicole in grado di divertire, possibilmente divertendosi nel farlo.
Ma la possibilità di parlargli è importante anche per esaminare più da vicino la situazione del cinema di Hong Kong in generale. E allora fioccano le domande sulla situazione attuale, sulla crisi e sulle strade da intraprendere per uscirne. «Fino a pochi anni fa, il mercato principale per Hong Kong è stato indubbiamente Taiwan. Adesso che però vi arrivano anche una gran quantità di film stranieri, le importazioni di film hongkongesi sono indubbiamente diminuite». Da qui la necessità di trovare nuovi mercati, nuovi bacini, dato che il solo mercato nazionale non è certo sufficiente ad alimentare un'industria così sviluppata. E se molti scelgono di andare - definitivamente o meno - all'estero (inutile stare a citare i soliti John Woo, Chow Yun Fat, Ringo Lam, Tsui Hark e molti altri), Wong Jing si dimostra ottimista per il futuro, e non sente la necessità di traslocare. «Non ho bisogno di Hollywood», non riesce a trattenersi dal dire, sempre sorridendo. «In via ufficiale non ho mai ricevuto alcuna proposta per andare in America. Per via ufficiosa sì, ma non ho sentito la necessità di accettare, dato che continuo ad avere buone opportunità anche qui». Si stanno infatti aprendo nuove strade, e se per il momento il mercato della madrepatria rimane chiuso, il futuro sembra meno nero di quanto previsto tempo addietro. Il mercato d'altra parte era già in crisi ben prima del ritorno alla Repubblica Popolare (lui parla di almeno 10 anni), ma adesso «pare si stia riprendendo».
È difficile crederlo, perlomeno a giudicare dalla qualità delle ultime pellicole, ma se lo dice lui...




Criminali da strapazzo
di Matteo Di Giulio

Il poliziesco di Hong Kong è stato sinora in grado di rinnovarsi continuamente. Prima il violento realismo della new wave (con pellicole come Coolie Killer e Long Arm of the Law), poi il filone heroic bloodshed iniziato da John Woo (The Killer il capolavoro assoluto), seguito a Born to Be Kingruota dai big timers, biografie di gangsters sulla falsariga di Scarface (To Be Number One di Poon Man-kit), infine i giovani cool che vivono ogni giorno la realtà delle triadi. In mezzo a tutto questo i Categoria III (beceri ma) sanguinari che in Herman Yau (per esempio con Taxi Hunter) hanno trovato il regista di punta e la parentesi capitanata dalla Milkyway di Johnnie To che ha dato nuova linfa al noir urbano con capolavori come A Hero Never Dies o Loving You. Cosa rimane oggi di questa esperienza? In quale direzione si dirige l'action movie hongkonghese? Vale la pena di prendere lo spunto dall'ultimo Far East per tracciare un percorso che permetta di comprendere le nuove tendenze e di ipotizzare degli sbocchi del futuro prossimo.
Il punto di partenza è comunque uno solo: la serie Young and Dangerous, diretta da Andrew Lau, è stata, nella seconda metà degli anni novanta, uno degli ultimi grandi successi di pubblico del cinema cantonese, e ha iniziato a mettere in primo piano le triadi e i suoi membri più giovani. Guardando dall'esterno la situazione è chiaro come la ramificazione delle produzioni porti fondamentalmente a tre diverse strade: a) i cloni, piuttosto spudorati, del film di Lau; b) i film che di quella serie smitizzano i contenuti, adottando come protagonisti o imberbi poliziotti o criminali altrettanto giovani; c) le parodie dell'intero genere poliziesco.
Tratto da un popolare fumetto, il film di Andrew Lau si concentra sulla vita e sulla scalata al potere di una serie di disadattati cui la vita ha negato un'esistenza tranquilla. Per sfuggire alla povertà gli eroi di questi film sono costretti a combattere per difendere i propri boss e a vedersela quotidianamente con nemici sempre più sadici (si parte con i traditori per arrivare a corrotti uomini politici passando per veri e propri maniaci). L'onore e il senso di appartenenza al gruppo sono i sentimenti-chiave che guidano i giovani ribelli ogni giorno. Dopo il grande successo del primo episodio sono fioriti i seguiti e le imitazioni. La serie è giunta adesso al settimo episodio con Born to Be King (e Lau, da buon capitano, non abbandona la barca neanche quando la vede affondare), dei cinque protagonisti originali ne sono rimasti solo due (Ekin Cheng e Jordan Chan) mentre per i diversi ruoli dei comprimari ruotano ciclicamente gli stessi attori (Roy Cheung e Michael Tse in primis). Gli sfigatelli sprovveduti sono cresciuti e ora iniziano a interessarsi di politica. Muovono ingenti somme di denaro e organizzano la malavita come fosse un'industria. Saranno gli effetti deleteri della new economy, ma nessuno si è reso conto che siamo alla frutta. Andrew Lau mai avrebbe immaginato di partorire una nuova caricatura sociale. Certo i malavitosi non sono mai stati estranei ai generi più disparati, ma ormai il giovane appartenente al mondo delle triadi è personaggio ricorrente in qualsiasi film, dalle commedie (le ultime con Stephen Chiau The God of Cookery e King of Comedy) ai mélo (Metade Fumaca) con risultati più o meno riusciti. Gli imitatori con meno timori di allontanarsi dall'originale nel tratteggiare gangster cool ma umani sono quelli che raggiungono i risultati migliori (Ballistic Kiss di Donnie Yen).
Come John Woo, il quale nel recente passato cercò di porre rimedio ai criminali pieni di fascino di A Better Tomorrow con i due poliziotti eroici di Hard Boiled, allo stesso modo è il cinema cantonese, dal suo interno, che spontaneamente cerca la chiave per ridurre l'impatto sui giovani della serie dei giovani e pericolosi. Il primo è stato Cha Chuen-yee, che con i due Once Upon a Time in Triad Society smitizza questa visione trendy delle triadi. Wong Jing, produttore della serie, invece di difendere la sua creatura, gira uno dei suoi film più sentiti, A True Mob Story, con cui attacca la degenerazione della criminalità attraverso lo splendido loser interpretato da Andy Lau. Mongkok Story di Wilson Yip ne riprende e rilancia il tema della pirateria dei video-cd e colpisce con spietato cinismo il trend cinematografico del momento. Ancora più convinti sono i protagonisti di opere come Gen-X Cops (blockbuster di Benny Chan prodotto da Jackie Chan e distribuito anche nelle sale americane) giovani fin troppo intelligenti e tecnologizzati che, sulla linea di confine tra bene e male, scelgono di diventare poliziotti. Grande successo e subito un nuovo trend di successo, con giovani eroi che sventano complotti criminali degni delle menti fumettistiche più ingegnose. Purple Storm, Gen-Y Cops, Hot War sono gli apici di questo filone che, occhieggiando a occidente, nasce e cresce asfittico. A questo punto sono paradossalmente più interessanti i super macho cui presta volto e fisico Michael Wong nei film sulle task force. Specialista del sotto-genere è Gordon Chan (coadiuvato dal fido Dante Lam), e film come Option Zero, pur puntando tutto sulla spettacolarità, non riescono ad evitare di risultare stereotipati. Niente di nuovo sotto il sole ma tanto onesto mestiere. Lo stesso mestiere che porta al tentativo di un Marooned di sondare il lato umano dei tutori della legge. Sempre facce carine acqua e sapone, e uno smielato mix di azione e love story. Incredibile ma vero, stavolta neanche il pubblico ha abboccato all'amo.
Il 2000 ha visto un'ulteriore controtendenza, quella della presa in giro. La parodia dei gangster di Jiang Hu: The Triad Zone, colpisce l'epico lirismo di The Mission e, pur senza riuscire completamente nel suo intento, è una boccata d'aria fresca. Francamente divertente il Maroonedmodo con cui vengono messi alla berlina, senza timori reverenziali, molti punti cardine del poliziesco che fu, in primo luogo l'amicizia con tendenze omosessuali tra criminali. L'umorismo è di scarsa raffinatezza e il prodotto non è memorabile, ma è lodevole il tentativo di cambiare le carte in tavola. Prima di riuscire a emulare il grottesco vertice di Too Many Ways to Be No. 1 di Wai Ka-fai passerà molta acqua sotto i ponti, ma già il fatto che ci sia voglia di sfuggire ai clichés è sintomo di intelligenza. La verità, per chi non se n'è accorto, è che la crisi parte dalla mancanza di idee. E dall'assenza di sceneggiatori capaci e affidabili. Il poliziesco è il primo genere che risente di una simile morìa di talenti e finisce nella banalità. Ad eccezione di alcuni prodotti totalmente atipici che hanno invece il coraggio e la capacità di scostarsi dai binari predefiniti e di rischiare discorsi nuovi. Bullets Over Summer e Juliet in Love di Wilson Yip (il cui Skyline Cruisers è solo un modesto riadattamento di Mission: Impossible 2) utilizzano un pretesto noir per contaminarsi con diversi generi, così come Task Force di Patrick Leung, riuscito mélo in salsa rosso sangue o To Where He Belongs di Ally Wong. Senza dimenticare gli autori alla Fruit Chan, che solo i festival internazionali accolgono a braccia aperte. Purtroppo manca un pubblico che apprezzi e valorizzi questi tentativi, salvandoli dall'insuccesso.
Rimangono a questo punto i grandi vecchi, visto che gli artigiani continuano a sfornare film tutti uguali. Jackie Chan fa lo stesso film da almeno dieci anni e le sue ultime prove sono una stanca riproposizone del suo concetto di fisicità, ma almeno riesce a divertire. Ringo Lam è passato dalle sparatorie al thriller, con buoni risultati, ma la mente è ancora rivolta oltreoceano dove ritroverà Van Damme. John Woo non si sposta più da Hollywood (e come biasimarlo?). Le speranze cadono quindi su Tsui Hark, che annuncia il quartoA Better Tomorrow, stavolta tutto al femminile, e rispolvera il suo passato per Time and Tide, che inizia in maniera moderna e si conclude nel peggiore dei modi, copiando a man bassa dai suoi stessi capolavori. Johnnie To, nonostante il buon successo di pubblico di Running Out of Time e di critica di Where a Good Man Goes, è tornato alla commedia, e almeno per una volta riesce a riportare a casa i soldi che ha speso.