Ip Man 3

Non ci credeva più nessuno a un seguito della saga di Ip Man. Troppi i film succedutisi sul personaggio, troppi i problemi tra Raymond Wong e il duo Wilson Yip-Donnie Yen, superati solo da quelli sui diritti di utilizzo dell’immagine di Bruce Lee, per cui era prevista una resurrezione in computer graphics. Ma ha prevalso la voglia (e il cash-in ad essa correlato) di rivedere su grande schermo l’eroe più amato del cinema recente di Hong Kong e di assistere forse all’ultimo ruolo da protagonista di Donnie Yen in un film di arti marziali. Oltre allo scontro già reso mitico dai trailer tra Donnie e Mike Tyson, uomo dal pugno realmente di ferro.

Ancor più degli episodi precedenti, Ip Man 3 non è un biopic ma un’opera di fantasia. Gli anacronismi e le “libere interpretazioni” della vita del Maestro – un figlio che non invecchia mai, una moglie da cui non si separa mai, un Bruce Lee che non parte mai per gli Stati Uniti – ormai non si contano più, ma è chiaro come ormai quella di Ip Man sia una figura essenzialmente di celluloide (o di pixel, oggi), che ha abbondantemente superato per numero di imprese e importanza identitaria quella reale.

Al punto da permettersi il lusso di non essere il maestro di Bruce Lee, visto che neanche in questo terzo episodio il sodalizio tra i due si concretizza1. Il loro ennesimo incontro prelude però una delle sequenze migliori del film, con il parallelo tra danza e wing chun, tra mascolino e femminino, yin e yang, che caratterizza l’elemento di maggiore interesse dell’episodio. Ip Man è più che mai scisso tra gli obblighi di marito e quelli di paladino dei più deboli, sempre attento a non tradire la propria etica wing chun. Un dissidio che lo lacera, alimentato dalla malattia della moglie e attenuato dalla capacità di amorevole comprensione di quest’ultima. Dove Ip Man 3 funziona meno è curiosamente sul lato action e marziale. Senza Sammo Hung svaniscono i dinamismi esagerati e il ricorso all’oggettistica di Ip Man 2 che lo rendevano eccessivo ma incisivo: con l’eccezione del duello in ascensore, poco delle coreografie di Yuen Wo-ping – sottotono, come già nel disastroso sequel di Crouching Tiger, Hidden Dragon (La tigre e il dragone) – sa di inedito e di autentico, le scaramucce tra Ip e le Triadi procedono con il pilota automatico e lo scontro tra Yen e Zhang Jin piace senza stupire.

Zhang in generale rappresenta la grande occasione mancata di Ip Man 3, dopo esserlo già stato per SPL 2: A Time of Consequences. Interprete di uno stile marziale impeccabile e violento, appena un po’ troppo robotico, il suo personaggio o viene limitato, come nel film di Soi Cheang, o difetta nella scrittura, come in quello di Yip. Tutte le ellissi che riguardano Zhang – il suo passato, le ragioni della sua invidia e senso di rivalsa verso Ip – rimangono tali, ma aggiungono confusione anziché mistero sulla sua psiche, specie considerando che si macchia di un’azione gravissima ma un attimo dopo è già riabilitato da un punto di vista etico. Lo scontro Yen-Tyson, invece, è poco più di uno spot, come si poteva prevedere. In parte per evitare di calcare la mano sul tema gweilo di cui era stato accusato il secondo episodio della saga, in parte per non scontentare nessuno e rimanere, per quanto forzatamente, nei binari della trama. I temi meritevoli di un approfondimento restano così solo sulla carta. Come il ruolo di vigilante e il discorso che Ip fa al poliziotto (e con lui alla legalità di Hong Kong), le armi spuntate del kung fu rispetto al guadagno facile che la vita malavitosa può offrire; o il ruolo dei media, incarnato dal fotoreporter che segue Zhang Jin e ne racconta l’ascesa, che ricorda il giornalista terrorizzato da Gene Hackman ne Gli spietati (The Unforgiven). Dal western crepuscolare al gong fu pian crepuscolare, quindi. Spunti molto interessanti che rimangono tali, anche per rispettare un minutaggio inutilmente dilatato dalle smorfie di Patrick Tam Yiu-man o di Iron Mike. Nella sua semplicità all’Ip Man – The Final Fight di Herman Yau l’amarcord era riuscito molto meglio: ma quella di Yau era Hong Kong, mentre quella di Yip è una città dei fumetti, che sta a Hong Kong come Metropolis sta a New York City.

Se di ultimo giro di valzer si tratta, quello dell’Ip Man di Yip e Yen resta un congedo dignitoso, ma nulla più.

 

1 In un primo momento Wilson Yip voleva ricorrere a una “resurrezione” CGI di Bruce Lee stile Fast and Furious 7, ma chi detiene i diritti sull’immagine di Lee lo ha espressamente vietato.

 

Hong Kong, 2016
Regia: Wilson Yip.
Soggetto/Sceneggiatura: Edmond Wong, Chan Tai-li, Jill Leung.
Action director: Yuen Wo-ping
Cast: Donnie Yen, Lynn Hung, Zhang Jin, Patrick Tam Yiu-man, Mike Tyson.


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