Our Time Will Come Hong Kong, tra il 1941 e il 1944. Dopo l'invasione giapponese, Hong Kong pullula di collaborazionisti e di oppositori al regime. Tra questi ultimi c'è il poeta comunista Mao Tun, ospitato dalla signora Fong che è all'oscuro di tutto. Man mano che i servizi segreti giapponesi si interessano a Mao Tun, la signora e la figlia Lan dovranno decidere con chi schierarsi.

Con la sobrietà e l'attenzione all'empatia umana che la caratterizzano, Ann Hui ritorna su uno dei temi fondativi dell'identità hongkonghese, la resistenza anti-giapponese degli anni '40.

Dopo Love in a Fallen City nel lontano 1984, fiammeggiante mélo con Chow Yun-fat, e la biografia di The Golden Era, la regista si dedica a un'opera totalmente incentrata sulla guerriglia urbana che divise Hong Kong tra oppositori del regime in incognito e collaborazionisti filo-nipponici. Il pretesto è la celebrazione del ritorno alla Cina di Hong Kong, a vent'anni dal fatidico handover. Ma non sono la ricorrenza - tutt'altro che celebrata a Hong Kong - né la meticolosa ricostruzione degli eventi a interessare Ann Hui. Sebbene gli eroi immortalati, come l'infallibile guerriero Blackie, siano ispirati a personaggi realmente esistiti, il punto di vista è ancora una volta quello della gente comune, degli umili schiacciati dalla società e dalla Storia. Delle donne, in particolare, dimenticate o date per scontate, protagoniste silenziose. Come una madre e una figlia che, non paghe di lottare quotidianamente per il proprio sostentamento, si ritrovano - quando un cadavere è abbandonato davanti alla loro porta - a dover decidere se chiudere gli occhi di fronte a quel che accade o divenire parte attiva di una guerra civile, per il bene di tutti.

Fuoricampo c'è la Hong Kong odierna, che al sacrificio di quegli eroi deve tutto. La metropoli finisce così per avere un duplice ruolo in Our Time Will Come: uno visibile, come ambientazione di un mockumentary, in cui è la stessa Hui a intervistare un anziano tassista che rievoca il passato e avvia il flashback; ma soprattutto uno invisibile, come controcanto di un'immutabile condizione di oppressione che accomuna i più poveri, oggi come ieri vessati dai consueti problemi. La struttura su più livelli (finto documentario + flashback) richiama lo Tsui Hark di The Taking of Tiger Mountain, che parte dal presente della Cina per evocare una delle sue leggende più celebri, ma soprattutto Center Stage di Stanley Kwan. Per la Hui è in parte una strizzata d'occhio e in parte una rivendicazione di honkonghesità: Tony Leung Ka-fai, l'uomo comune, il tassista, è l'ennesimo proletario oggetto di indagine della regista, punto di partenza per un'escursione sulle radici della nostra libertà, costantemente messa in discussione.

Tra le vicine indigenti di The Way We Are, la domestica malata di A Simple Life (Coppa Volpi per Deanie Ip) e la signora Fong di Our Time Will Come, a cui dà volto nuovamente la straordinaria Deanie Ip, c'è un legame forte, chiaro e diretto. Limpido come il cinema schietto e instancabile di una delle voci più preziose rimaste, di quel che fu il cinema di Hong Kong.

 

Hong Kong/Cina, 2017
Regia: Ann Hui.
Soggetto/Sceneggiatura: Ho Kei-ping.
Action director: Stephen Tung, Liu Ming-zhe.
Cast: Zhou Xun, Eddie Peng, Deanie Ip, Wallace Huo, Tony Leung Ka-fai.


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